martedì 31 maggio 2011

La fiction poliziesca come forma di propaganda

La fiction televisiva "La squadra", che ha per protagonista una squadra d'élite della Polizia Federale messicana impiegata nella guerra contro i narcotrafficanti, è accusata dai blogger e attivisti locali di essere una forma di propaganda volta unicamente a riscattare l'immagine delle forze armate offrendone un'immagine idealizzata. A riportare la notizia è Global Voices Online (Mexico: Consensus on Disapproval of Tv series: The Team). Tra le "colpe" della produzione, quella di lavorare a stretto contatto con le guardia federale (che supporta la fiction anche dal punto di vista logistico, fornendo anche strutture e mezzi - dalle caserme agli elicotteri).

"Truthfully, even from an outside and partial perspective, it is very uncomfortable to see real problems that furiously batter the country as part of the plot of a television series, with every manner of marketing strategy in the mix. However, looking at it under a critical light, they seem to have found an easy way to reestablish faith and credibility in the Federal Police. In other words, it's a strategy to validate a war that they see as more and more unjust through a product consumed daily by the people"
  
L'Italia pullula di fiction poliziesche, genere solitamente praticato con grande uso di retorica e senza prestare attenzione alle sfumature, in molti casi fatte anche in collaborazione con la Polizia di Stato: basti pensare ai celebri "Ris", a "Distretto di Polizia", a "Squadra Antimafia" e a "La Squadra". Ciò nonostante, non mi risulta che mai nessuno abbia accusato queste fiction di fare propaganda. Certo: la polizia italiana non è esente da colpe, ma certamente non è ai livelli della polizia messicana (e sudamericana) celebre per corruzione, violenza e atteggiamenti anti-democratici. 

Allo stesso tempo, però, non possiamo non notare come le fiction contribuiscano anche da noi a migliorare l'immagine della nostra polizia (che ha ampie sacche di fallibilità, di corruzione, di violenza), e come il successo di queste fiction proceda apparentemente in parallelo all'ondata sicuritaria che il nostro paese sta vivendo.

lunedì 30 maggio 2011

Viaggio attorno alla scena del crimine. Lazarevo, "covo" del boia di Srebrenica

Il New York Times ha spedito un inviato a Lazarevo (A fugitive in their midst? "Ridiculous", Villagers say), tranquillo villaggio di 3.000 abitanti nella Vojvodina serba dove la polizia serba ha appena arrestato il boia di Srebrenica Ratko Mladic, per sentire che si dice da quelle parti. Lo stesso ha fatto il Guardian (Ratko Mladic arrest divides Serbian villagers)

Il sentimento che sembra prevalere a Lazarevo è un mix di fastidio (con punte di sconforto) e rimozione, intervallato da rigurgiti di orgoglio.

In primo luogo il fastidio della popolazione per tutti i riflettori che hanno improvvisamente illuminato il loro angolo di periferia. 

Oltre a disturbare la quotidianità ed il ménage, le frotte di giornalisti che accorrono sulla scena del crimine (a Brembate, ad Avetrana, ad Abbottabad, a Adro o a Lazarevo) fanno svanire la favola su cui si basa l'orgoglio di appartenenza in queste piccole comunità periferiche e cioè il concetto di "paese tranquillo, dove non succede mai niente e dove le strade sono sempre pulite". In questi casi, sembra quasi insinuarsi l'idea per cui vi sia una qualche colpevolezza (o almeno una connivenza) collettiva: gli sguardi che il mondo intero ha focalizzato sui 3.000 villani di Lazarevo deve sembrare - visto da laggiù - carichi di accusa: "ma come, fra di voi viveva un criminale e non ve ne siete accorti o non avete fatto nulla". 

Se molti tra coloro che si sentono travolti da queste accuse abbassano le orecchie, mettono la coda fra le gambe e chiudono gli occhi, altri reagiscono con incredulità e stupore. Ci troviamo di fronte a due forme di quella che gli psicologi chiamano rimozione: la negazione di un problema (o di una colpa). Nel caso di Lazarevo, la rimozione ha assunto anche le sembianze di una teoria del complotto: ecco quindi che chi risponde alle domande dei giornalisti finisce spesso per dire che Mladic non ha mai vissuto lì, ma è stato portato dalla polizia serba che ha voluto mettere in scena in questo modo la cattura.

Ma c'è dell'altro. Spesso, quando le comunità periferiche coese si sentono puntati addosso gli sguardi carichi di accusa (o almeno di sospetto) del mondo, reagiscono affermando come valore positivo ciò che gli altri gli rinfacciano. "Ok, voi (sporchi moralisti e imperialisti metropolitani) pensate che noi abbiamo nascosto Mladic. E se così fosse? Per noi, peones di Lazarevo, Mladic è un eroe nazionale". E' così che la periferia alza la testa e si rivolta contro il centro, rovesciandone le argomentazioni.

Che è un po' anche la forza, a diverse latitudini, dei movimenti periferici quali - in Afghanistan - quello dei talebani o - in Italia -della Lega Nord.

venerdì 27 maggio 2011

Il culto della principessa. Indicazioni per l'uso

"C’è una principessa nella testa di ognuna di noi. Dobbiamo distruggerla" scrive Laurie Penny su Internazionale (Il culto delle principesse non è una favola). 

La premessa è l'indiscutibile fascino esercitato dall'immaginario e dalla figura della principessa sulle bambine e spesso anche sulle adulte - immaginario che viene opportunamente sfruttato e reiterato dall'industria del cinema, dei giocattoli e del gossip. L'autrice, quindi, si chiede: quale messaggio e quale visione della donna tradisce e propone l'immaginario della principessa? 

"Kate Middleton è la perfetta principessa di oggi, nel senso che appare sostanzialmente senza carattere: una bambola da vestire per l’epoca dell’austerità. I nuovi muscoli reali sembrano così rigidamente contratti in quel perenne e lucidato sorriso di docile modesta arrendevolezza che quando ha aperto la bocca per parlare durante la cerimonia in mondovisione, sono sobbalzata sulla sedia. Alla fine si è scoperto che ha detto solo “Sì”, come se qualcuno avesse tirato una cordicella dietro quell’abito principesco per attivare una suono di rituale accettazione. Il breve cammino di Kate da figlia di un milionario a duchessa di Cambridge è stato malamente adattato al vecchio schema di Cenerentola, con commentatori sdolcinati impegnati a descriverla come una donna qualunque che, grazie al fatto di essere carina, poco invadente e opportunamente sottopeso, ha ottenuto in prestito un diadema da principessa".

In fondo, scrive la Penny, il "culto della principessa" non è altro che quel "culto della mobilità sociale" che risale all'epoca in cui tutte le speranze di status e di miglioramento della condizione sociale della donna dipendevano dal matrimonio: "una fantasia di tradimento di classe - scrive la Penny - grazie alla quale le brave bambine crescendo riescono a ottenere cameriere e maggiordomi".

Certo: chi oggi propone, soggiace o è succube dell'immaginario della principessa, sembra nutrire l'idea della donna come soggetto passivo, silenzioso, poco invadente. Ma il culto delle principesse non si riduce nel presente a tutto ciò: il culto delle principesse è anche una reazione al culto delle nuove donne oggetto e della iper-sessualizzazione. La principessa è, in un certo senso, un'anti-velina. Scrive la Penny: "La principemania è concepita da alcuni genitori come una forma di difesa dalla “sessualizzazione precoce”: il portamatite con il coniglietto di Playboy e le magliette da lolita che altre bambine reclamano a gran voce. Le principesse sono viste come una innocente fantasia che offre virtuosi vantaggi rispetto ai lecca-lecca e ai volteggi intorno al palo della puttanaggine adolescenziale".

Conclude magistralmente la Laurie:
Alle ragazze vengono offerti due modelli antitetici di femminilità docile e pseudoliberata: la principessa e la pornostar. È un’alternativa che esiste da secoli: vergine o puttana, un bel principe o un bel pappone, chi ti vuoi scopare per conquistare fama e fortuna? Oggi lo spettro colorato delle aspirazioni femminili va solo dal pallido rosa pastello allo sgargiante rosa sexy, con un’occasionale deviazione per il bianco nuziale. Ma lì fuori c’è un intero arcobaleno di esperienze tra cui le ragazze possono scegliere. La mania delle principesse non è solo un fallimento del femminismo, ma un fallimento dell’intera società che non sa rispettare e valorizzare le sue giovani donne offrendogli qualcosa di più di una inconsistente e rosa fantasia da vissero sempre felici e contenti. Non c’è niente di male nel fantasticare un po’, ma per le bambine di tutto il mondo ci sono sogni migliori che voler solo essere carina come una principessa.

Peccato che le linee di giocattoli e le televisioni commerciali e per bambini non si nutrono di sfumature.

giovedì 26 maggio 2011

Sul razzismo dei militanti anti-Gheddafi

La rivoluzione e la guerra civile in Libia non vanno più di moda; e la cosa è paradossale visto ora più che mai anche l'Italia è coinvolta. Fortress Europe, però, non molla e continua a raccontare come la guerra si stia trascinando di atrocità in atrocità, fino a rendere tutti colpevoli.
 
E' il caso dei linciaggi dei mercenari africani assunti da Gheddafi compiuti dai rivoluzionari, ma anche delle violenze gratuite di cui sono resi oggetto i tanti migranti africani che sono rimasti intrappolati (ed abbandonati) in Libia in cui si mischiano rabbia, sconforto, disinformazione, teppismo e una forte dose di razzismo (Rivoluzionari e razzisti? Le stragi dei ribelli di cui nessuno vuole parlare) - che ci porta ancora una volta ad auspicare la de-razzializzazione delle rivoluzioni in Medio Oriente. Non ha senso fare una classifica delle più tremende tragedie degli ultimi decenni; certo è però che la situazione che vivono questi ragazzi originari dell'Africa sub-sahariana (smarriti, abbandonati, stranieri in un paese in guerra, privi di mezzi di sussistenza e pure perseguitati), non dovrebbe lasciarci insensibili.

Scrive Gabriele Del Grande:
La guerra è guerra. E i cattivi non stanno solo da una parte. Come sempre succede, la violenza finisce per generare altra violenza. E la Libia non è un'eccezione. Tutt'altro. Da Benghazi a Tripoli, la guerra ha risvegliato un odio ancestrale mai sopito. L'odio razziale. Dei bianchi contro i neri. E così la volgata popolare ha accusato i mercenari africani di tutti gli orrendi crimini commessi dalle truppe di Gheddafi. E il resto l'ha fatto il delirio delle masse assetate di vendetta. Gente armata fino ai denti, che in più di un'occasione ha giustiziato a sangue freddo i militari fatti prigionieri, con un particolare accanimento contro i neri, sia da vivi che da morti. Per non parlare dei civili innocenti che sono stati letteralmente linciati dalle folle perché sospettati di essere mercenari africani e tutto questo solo perché erano neri.
Sono più che congetture: per provarlo, basta scorrere i video raccolti da Gabriele col tag Rivoluzionari e Razzisti?

mercoledì 25 maggio 2011

Intimidazioni e violenze ai danni degli imprenditori immigrati. In Sud Africa

L'IRIN ci porta nelle township del Sud Africa dove i negozianti immigrati (ad esempio i tanti rifugiati provenienti dalle zone di guerra, come la Somalia) sono oggetto da anni di intimidazioni e di attacchi da parte di gruppi organizzati di commercianti autoctoni (South Africa. Foreign Traders face threaths, intimidations, Market forces part of xenophobic violence). 

Anche se la distanza fra il Sud Africa e l'Italia è enorme, il meccanismo è simile e facilmente comprensibile: gli immigrati trovano facilmente sbocco nei piccoli business familiari dove - grazie al sostegno dei membri del gruppo, ai legami internazionali ed alla cultura imprenditoriale - riescono abbastanza facilmente a proliferare pestando però i piedi ai commercianti autoctoni, che reagiscono in maniera a volte più cavillosa a volte più esplicita e aggressiva per difendere le loro misere rendite di posizione.In particolare, la "colpa" dei somali è quella di avere introdotto nelle township sudafricane il "supermercato", inteso come vero e proprio negozio di medie dimensioni in cui è possibile trovare una scelta più ampia di prodotti a prezzi concorrenziali, che ha mandato in crisi il sistema basato sulle mini-rivendite informali. 

Già due anni fa il tutto era stato descritto da un interessante rapporto curato dalle autorità locali che riassume le ragioni del successo degli imprenditori immigrati sui commercianti locali.
The report speculated that attacks on Somali-owned businesses were "ethnically motivated"; but "there are issues of pricing, consumer choice and the growth of supermarket-like spaza shops that has an impact on retail business in the area," it noted. "Many spaza shops owned by Somali immigrants have evolved into mini-superettes [convenience stores], which tend to be preferred choice of consumers as they offer a wider range of products compared to an over-the-counter or through-the-window spaza shop." Local spaza shop owners "were motivated by survival and would rather work for a company, should the option become available. Foreign spaza shop owners, on the other hand, were more innovative and envisaged growth in their businesses," the report commented. "Foreign spaza shop owners had a wider range of products and services at lower prices. Foreign spaza shop owners conducted bulk buying through social networking and also accessed finance through these networks. This resulted in foreign spaza shop owners obtaining substantial discounts. As a result of this, local spaza shop owners were struggling to compete."
The report said there were "cultural differences" that made foreign spaza owners more "collectivistic in nature", as opposed to the "individualistic" approach of locally owned shops. "The distinct differences between the two groups of business owners have resulted in different buying methods, where foreign spaza shop owners do collective buying and thereby qualify for bulk discounts, which impacts directly on pricing strategies." The report highlighted local spaza shop owners' absence of book-keeping - as practiced by foreigners - which, apart from detailing the financial health of the business, was crucial to accessing finance.

martedì 24 maggio 2011

Che fine ha fatto "Italo(Spagnolo)"?



Era il 2007, e si chiudeva il programma di Mtv, condotto da Fabio Volo, "Italo(Spagnolo)". Una trasmissione spensierata, euforica e di pura superficie, che riassumeva l'immagine da Eldorado che gli italiani avevano della Spagna e che era nato - per dirla con Fabio Volo - "per mettere in risalto questa benedette differenze di cui tutti parlano a proposito di Italia e Spagna".
Era infatti l'epoca in cui, ad ascoltare i giovani italiani "illuminati", in Spagna scorrevano fiumi di miele, i ricercatori universitari se la spassavano, tutti si sposavano o si facevano fecondare, e qualsiasi cameriere semi-analfabeta guadagnava abbastanza per garantirsi la bella vita.

A pochi anni di distanza la disoccupazione giovanile in Spagna è al 44%, ed a manifestare e a lamentarsi sono gli studenti erasmus spagnoli in Italia.

Mi piacerebbe sapere che fine hanno fatto (e soprattutto che insegnamento hanno) quelli che sono allora sono "fuggiti" in Spagna.

lunedì 23 maggio 2011

La crisi del matrimonio? Non è solo una questione di numeri

Il blog del Corriere "La ventisettesima ora" - sicuramente il miglior "blog" del periodo, se vogliamo considerare blog una sezione di sito curata comunque da professionisti - dedica un articolo ai fattori alla base della riduzione costante dei matrimoni (Perché il matrimonio fa così paura).

Per cominciare, non è certo la "crisi" a mettere in difficoltà l'istituto del matrimonio: il matrimonio è in crisi da tempo. Una crisi che per di più non puo' essere riassunta nei numeri (meno matrimoni, più divorzi e separazioni): ad essere cambiata è anche la stessa visione del matrimonio, sempre più inteso come "un'incombenza burocratica" e quindi sempre meno come un evento socialmente e individualmente rilevante.

Il matrimonio non è un'istituzione in crisi solo dal punto di vista quantitativo: è "in crisi" anche dal punto di vista qualitativo, giacché sta mutando di senso fino a svuotarsi del residuo significato. Forse è ora di trattare il matrimonio come un'istituzione residuale ed in declino e come un semplice e banale contratto da persone, senza nemmeno sbattersi troppo per fare, leggere e commentare queste statistiche che significano veramente poco.

Le relazioni tra persone e le nuove forme di famiglia, al contrario, sono forse meno lineari (cioè più vive e più reali) ma sono tutt'altro che in crisi - ed è questo che, anche se forse non si può misurare, conta davvero.

venerdì 20 maggio 2011

"Hijab quick chic". Anche le fashion blogger musulmane hanno i loro tutorial

Il "velo" come accessorio di vestiario vissuto con semplicità, ma allo stesso tempo anche come ricettacolo di significati e tensioni complesse. Da una parte, l'espressione (variamente sentita) di un'appartenenza socio-culturale: l'abitudine e la tradizione, le pressioni comunitarie ed il desiderio di conservare una specificità, la tensione religiosa e la volontà di rivendicare un'origine peculiare, i tabù ed i ricordi d'infanzia e le pressioni violente dei "conflittori". Dall'altro, quel far propri i registri dell'apparenza, dell'immagine, della moda: il guardarsi allo specchio ed il desiderio di piacersi e piacere, il creare e il decostruire modelli, il conciliare praticità e seduzione, somiglianza e differenziazione.

Youtube pullula di video-tutorial curati da fashion blogger più o meno improvvisate; e tra una truccatrice ed una parrucchiera, spuntano le giovani musulmane con i loro tutorial su come vestire e abbinare il velo. La rivista femminile ELLE, edizione canadese, dedica un'intervista dopia ad Hana Tajima, titolare del blog www.stylecovered.com, messa a confronto con una designer di costumi da bagno. Il risultato, lo trovate scannerizzato qui. Per i tutorial, ancora più interessanti, basta partire - per esempio -  da qui.

mercoledì 18 maggio 2011

La fatica di essere individuo

Cosa succederebbe se scoprissi di avere un antenato fenicio, vichingo o ebreo? Evidentemente, nulla. Non siamo ciò che sta scritto nel nostro sangue, nei nostri geni, nel nostro lignaggio: a parte i lineamenti di fondo e la possibile predisposizione genetica a qualche brutto male, siamo delle bestie culturali. Lo sono pure gli animali, tra l'altro; e noi umani, con tutte le arie che ci diamo, non dovremmo aver dubbi a dire che siamo prima di tutto prodotti dell'ambiente e di noi stessi, non dei nostri avi.

E se domani ci clonassero, l'essere che ne uscirebbe sarebbe uguale a noi soltanto per quanto riguarda la nuda superficie: al di sotto, pensiero sentimenti e propensioni, e al di sopra, vestiti e modo di fare, sarebbe tutt'altro perchè i geni, per quanto riguarda l'identità seriamente intesa, non c'entrano nulla. E allora, che ci clonino pure; a parte il fatto che non avrebbe senso alcuno.

Già essere animali culturali, comporta fatica. Non solo: siamo anche animali individuali.

martedì 17 maggio 2011

Fenomenologia delle first lady dei dittatori decaduti

Glamour, cosmopolite, mondane, spesso colte e sempre e comunque molto attive nel mondo della filantropia. Sono le ex first-lady del Nord Africa e del vicino Oriente, mogli dei dittatori decaduti del sud e dell'est del Mediterraneo. Un tempo considerate "rose del deserto" e "luci in paesi pieni di ombre", riemergono ora per un'ultima volta sulle cronache insieme a tutti gli scheletri che hanno custodito nell'armadio domestico

Ne parla Christina Patterson, in un bell'articolo pubblicato sull'Independent (Lessons in love, marriage and charity from dicators' wives), partendo da biografia tra loro diverse per arrivare però ad accomunarle nella condanna. Una condanna se possibile doppia: per avere taciuto, e per avere rappresentato il lato più ipocrita e populista del regime.
How do these women sleep at night? How do they climb into bed with men who kill, and torture, and steal? How do they stand on platforms and talk about the rights of women and children, while their husbands are stifling, and cheating, and sometimes even killing, the women's husbands and the children's fathers? How do they convince themselves that it's fine for them to have millions, while their people struggle to buy bread, and that, even with their millions, they need more? You can't excuse a 25-year-old woman for staying with a man she knew to be a mass murderer. You can't excuse a 54-year-old Tunisian for trying to steal money she must have known belonged to the people, or a 70-year-old Egyptian for trying to steal money that was clearly meant for the poor. And you can't begin to excuse a bright, well-educated, Syrian Brit for colluding in her husband's regime's mass murder.

lunedì 16 maggio 2011

Fantasie d'occidente. Storia essenziale della danza del ventre.

(Vai al Pdf in Scribd)

Pur continuando a rimandare ad un immaginario esotico distorto, e pur traendo parzialmente spunto dalle antiche danze popolari del vicino e del medio Oriente, la “danza del ventre” è oggi un prodotto ibrido completamente incorporato nella cultura popolare “occidentale”. La danza del ventre contemporanea, infatti, è il risultato della reinterpretazione delle danze ma anche delle fantasie, dei racconti e dei desideri emersi in due secoli di incontri tra Oriente ed Occidente; risultato che non fa che ricordarci come l'incontro tra culture produca sempre ed inevitabilmente culture nuove, “di sintesi”, e di come queste culture nuove siano prodotti spontanei dei nostri bisogni che trovano nel nuovo un'opportunità per prendere forma. 

Quella che segue vuole essere una breve ed informale storia genealogica della Danza del Ventre occidentale contemporanea. Il mio obiettivo non è quello di mostrare semplicemente come la danza del ventre contemporanea sia inevitabilmente qualcosa d'altro rispetto alle “danze tradizionali”, né quello di mostrare semplicemente come la storia della Danza del Ventre sia anche una storia di pregiudizi e di rapporti asimmetrici tra “Oriente” e “Occidente”, né quello di dimostrare semplicemente come la Danza del Ventre dica molto di noi e nulla del “vero” Oriente. L'obiettivo principale, piuttosto, è quello di descrivere il potere creativo dell'incontro interculturale e la natura intrinsecamente meticcia della cultura – in questo caso – materiale.

venerdì 13 maggio 2011

Il dono di Sherazade [Mario Vargas Llosa]

Sherazade, la giovane che nelle Mille e una notte riesce - grazie alla sua intelligenza ed alla sua capacità di inventare e narrare -  ad affascinare e a "curare" addirittura il crudele re Shahriyar, non è solo un'icona dell'esotismo più consumistico, orientalista e superficialmente libidinoso che popola l'immaginario occidentale degli ultimi secoli. E' anche un'icona dell'intelligenza e dell'intraprendenza femminile (una sorta di anti-velina), nonché una parabola sull'importanza e sul potere civilizzatore della fantasia e dell’invenzione

Proprio partendo da questo secondo aspetto, Mario Vargas Llosa ha scritto un breve saggio -pubblicato dalla Stampa nel 2008 - che parte da Sherazade per arrivare a sintetizzare in maniera efficace l'importanza ed il ruolo della letteratura (Il dono di Sherazade). Mi permetto di riportarne qualche assaggio.
Sherazade riesce a compiere un vero miracolo. Non può restituire la vita alle decine di giovani sacrificate dal tiranno (...) ma, con le sue arti di grande narratrice, mitiga la ferinità di questo barbaro che, prima di sposarsi con lei, era puro istinto e pura passione. Facendogli vivere e sognare vite immaginarie, lo instrada sulla via della civiltà. Non esiste nella storia della letteratura una parabola più semplice e illuminante di quella di Sherazade e Sahrigar per spiegare l’importanza della fantasia e dell’invenzione nella vita degli esseri umani e il modo in cui esse abbiano contribuito a riscattarli dai bui inizi della loro storia quando ancora non erano diversi dai quadrupedi e dagli animali feroci. (...) I personaggi principali [delle Mille e una notte] godono del piacere di raccontare, una delle più antiche forme di relazione sviluppate tra gli esseri umani quando furono costretti a riunirsi in comunità per meglio difendersi dagli animali feroci, dall’inclemenza del clima, dalle tribù nemiche e per procacciarsi il cibo. Come accade per Sherazade con il re Sahrigar, queste storie che brillavano nelle caverne primitive attorno al fuoco capace di tenere lontane le fiere, hanno, via via, reso più umano chi le ascoltava. Esse rappresentano l’alba della civiltà, il punto di partenza del miracoloso cammino che ha portato gli esseri umani, con il trascorrere dei secoli, alle grandi scoperte della scienza, alla conquista della materia e dello spazio, alla creazione dell’individuo, dei diritti umani, della democrazia, della libertà e anche, purtroppo, dei più spaventosi strumenti di distruzione mai conosciuti dalla storia. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza la fame di vita alternativa, d’un destino diverso dal proprio che ha fatto sorgere nella specie umana l’idea d’inventare storie e di raccontarle; in sostanza, di viverle e di condividerle attraverso la parola e, dopo, attraverso la scrittura. Questa occupazione, questa magia, ha affinato la sensibilità, stimolato l’immaginazione, arricchito il linguaggio, offerto a uomini e donne tutte quelle avventure che non potevano assaporare nella vita reale e regalato loro momenti di felicità assoluta. La letteratura è anche questo: un duraturo risarcimento contro gli infortuni e le frustrazioni della vita. (Mario Vargas Llosa)

mercoledì 11 maggio 2011

La scuola cattolica nel secolo XXI

Maeve McCormack è il responsabile dell'organizzazione cui fanno capo tutte le scuole cattoliche d'Inghilterra e di Galles. Sul Guardian, prova a rivendicare l'importanza, la centralità e la funzione sociale delle scuole cattoliche per l'intera società britannica (The continuing tradition of Catholic education), finendo per fare il punto sulle principali leve retoriche usate dall'establishment cattolico per mantenere una centralità messa più che mai in discussione dalla prassi.

L'argomentazione di McCormack prende le mosse da una considerazione di natura storica: la chiesa si è occupata storicamente dell'educazione dei giovani, compresi quelli provenienti dalle famiglie disagiate, ben prima dello stato e di ogni altro ente, contribuendo quindi al progresso della "civiltà" e del paese. In altre parole: siamo in debito con loro.

Il secondo argomento di McCormack fa invece riferimento alla natura "popolare" delle scuole cattoliche di oggi: le scuole cattoliche non sono scuole elitarie o enclave abitate da una popolazione omogenea di bianchi cattolici della middle class, quanto piuttosto luoghi in cui trovano rifugio giovani dotati di qualità ma non di mezzi economici. Oggi, spiega McCormack, le scuole cattoliche britanniche continuano ad accogliere giovani provenienti da ogni strato sociale, non-cattolici compresi: pur conservando un'elevata qualità, le scuole cattoliche sono anche un luogo in cui la diversità etnica e sociale tra gli alunni è più accentuata. Le istituzioni cattoliche meriterebbero quindi rispetto e privilegi, secondo la retorica di McCormack, perché sgravano la società dalla cura dei diseredati, degli orfani, dei marginali; un vecchio discorso che neanche il welfare state e le rette salate delle scuole ed università cattoliche (comparate alla gratuità o quasi delle istutuzioni pubbliche) sono riuscite a scalfire.

E poi arriviamo alla motivazione principe: le scuole cattoliche forniscono un'educazione ("laica" e non dottrinaria, dicono loro) ai valori morali comunque benefica per l'intera società, a prescindere dall'etichetta religiosa. Per dirla con McCormack, "We consider education to be crucially important as a means of forming the whole person intellectually, morally and socially and we want to help to give children as good a start in life as we can. Catholic schools strive to offer children a well-rounded education, providing them with a moral basis from which they are free to make their own decisions."

Storia, pluralità, basi etiche "laiche". Forse la scuola cattolica è davvero, almeno retoricamente, una scuola sempre più come le altre.

martedì 10 maggio 2011

Trans candidati in Turchia. Chi è estraneo alla cultura dell'Europa?

Almina Can, musicista transessuale e trentaquattenne originaria di Izmir, è in corsa per una candidatura al parlamento turco nelle file del partito musulmano moderato ma conservatore di Erdogan. Ne parla East Side Report (La sfida trans di Almina Can), riportando brani di un'intervista concessa al TagesSpiegel. Come fatto notare da Notizie Gay (Turchia. Due transessuali in corsa per una poltrona in parlamento), Almina Can non sarà la sola trans candidata: Oyku Ozen, attivista per i diritti del mondo lgbt di Bursa, sarà infatti a sua volta candidata - ma nelle file dell'opposizione.

Non ci resta che attendere che qualcuno approfondisca e contestualizzi questa notizia. Nel frattempo, chiediamoci chi è estraneo alla cultura dell'Europa.


(immagine via Cristiana Alicata)

lunedì 9 maggio 2011

La mappa delle destinazioni preferite dai viaggiatori (dalla classifica TripAdvisor)

TripAdvisor, il più influente e frequentato sito di recensioni dedicato ai viaggiatori indipendenti, ha stilato - partendo dalle valutazioni degli utenti - una lista delle più apprezzate e desiderate destinazioni di viaggio. Dove guardano i viaggiatori giovani e cosmopoliti di oggi? Quali sono gli immaginari di riferimento, quali i must see e quali le destinazioni emergenti? 

La città più apprezzata e desiderata del momento è Cape Town, Sud Africa; complici il traino del Mondiale di calcio, di Invictus (tra i must see Robben Island) e della waka waka, ma anche il fascino vago ma potente dell'Africa (anche se Cape Town è forse la meno esotica e la più "americana/australiana" delle città africane).

Al secondo posto c'è Sidney, altra destinazione che sembra offrire un mix di vita rilassata, di architettura contemporanea (l'iconica Opera House) ma anche di sole e di spiagge - che però non bastano più a fare, da sole, vacanza. Da notare come sia Sidney sia Cape Town siano destinazioni relativamente nuove e lontane, ancora praticate da pochi e costose (almeno per il volo dall'Europa o dagli USA): nuove frontiere dedicate soprattutto a chi ha denaro da spendere ma che allo stesso tempo vuole rimanere indipendente.

Al terzo posto c'è Machu Picchu, sito archeologico Inca nei pressi di Cuzco, Perù. Quarta Parigi, che si conferma città più affascinante d'Europa; quinta Rio de Janeiro, altra megalopoli che emerge grazie al mix di spiagge, architettura, elitismo, accessibilità e divertimento sfrenato. Seguono, nell'ordine, New York, Roma, Londra, Barcellona e Hong Kong.

La vecchia Europa tiene, e a fianco delle grandi città d'arte (Parigi, Roma, Venezia) emergono le grandi capitali glamour (Londra) e le città del divertimento (Barcellona, Praga) - mentre perdono appeal le bellezze naturali, anche perché lontane dal circuito dei low cost. I paradisi esotici classici (l'India, l'Egitto, il Messico, la stessa Africa) restano in secondo piano, mentre emergono le nuove capitali globali che uniscono architettura, vita notturna e spiagge. L'Italia, infine, continua a rivestire una posizione centrale con Roma, Firenze e Venezia nelle prime 25.

venerdì 6 maggio 2011

E' ora di smetterla di conoscere le lingue solo "a livello scolastico"

Rosaria Amato (l'Italia, il paese dove la conoscenza delle lingue rimane a "livello scolastico") riprende alcuni dati OSCE e Eurostat sul rapporto tra italiani e lingue straniere. Il risultato è molto interessante: l'Italia è il paese d'Europa in cui il consumo di film, riviste e libri in lingua straniera è meno diffuso. La conoscenza delle lingue straniere, oltre che scarsa e poco diffusa, non si muove quindi oltre il "livello scolastico", eufemismo per dire che le lingue straniere non sono considerate uno strumento ma come uno sfizio, come una sorta di conoscenza quiescente e teorica che serve a fare "status" ma che non ha implicazioni pratiche.

Più che battere il chiodo sull'importanza di potenziare l'insegnamento scolastico delle lingue, sarebbe forse necessario promuovere (prima di tutto a livello culturale) l'importanza dell'utilizzo delle lingue straniere anche dopo il periodo di studi: programmi tv e film in lingua originale (e qui le colpe sono tutte della tv pubblica), sostegno alla vendita di libri in lingua (ed alla loro diffusione nelle biblioteche), maggiore circolazione ed incentivazione della stampa estera.

Il problema, infatti, non si limita alla scarsa conoscenza teorica delle lingue: è un problema soprattutto il fatto che la conoscenza delle lingue si fermi ad un livello scolastico (rivelandosi oltre che rudimentale inutile e incompresa nel suo potenziale di apertura culturale).

giovedì 5 maggio 2011

Fratelli IN Italia - Passaparola!

Una lettera raccomandata, inviata dal comune ai diciassettenni nati in Italia da genitori immigrati, per ricordare ai ragazzi che lo desiderano che è tempo di avviare le pratiche per richiedere la cittadinanza italiana (e per spiegare le procedure ed i riferimenti del caso). Andrea Sarubbi rende conto di questa interessante iniziativa rivolta agli amministratori locali, inaugurata dall'amministrazione comunale di Reggio Emilia. 

Al di là dell'indubbio valore informativo, questa inziativa è fondamentale per il suo valore simbolico: essa rappresenta infatti una mano tesa, da parte delle istituzioni locali (il primo - ed il più concreto ed accessibile - tra i livelli di aggregazione democratica) in rappresentanza della comunità di vicinato, che invita i ragazzi a diventare partecipi a tutto tondo di questa comunità affiancando ai doveri che essi già hanno in quanto residenti (pagare le tasse, rispettare le leggi) i diritti di cittadinanza (voto, libertà di movimento, apertura di tutti i concorsi pubblici) ma anche e soprattutto il potersi sentire parte, al 100%, senza più distinguo - siano essi anche solo burocratici - di sorta.

Oltre che dovuta, la speranza è che questa mano formalmente tesa possa rappresentare un primo superamento di quel razzismo istituzionale (e di governo) che è uno dei motori della rabbia giovanile 2G (il motore principale è il comportamento delle persone, ma quello è sicuramente più lento e più difficile da cambiare).

In Italia tutti conoscono un amministratore locale o un sindaco; l'invito è quindi - prima di tutto - a far girare la voce.

Questo l'incipit della lettera firmata dal sindaco e dall'assessore alla coesione sociale (un bel nome per un assessorato):
“Gentile…, scriviamo a Lei e ai suoi familiari per sottolineare che, con il compimento del 18° anno di età, Lei ha diritto – se i requisiti corrispondono alle richieste della legge – a vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana. Diventare cittadini italiani significa fare parte a pieno titolo del Paese in cui viviamo, accedendo ai diritti civili e politici: poter partecipare a concorsi pubblici, poter votare, poter viaggiare liberamente. A oggi, la legge italiana non riconosce automaticamente la cittadinanza a chi nasce in Italia, se i genitori non sono a loro volta cittadini. Come Amministrazione comunale di Reggio Emilia, crediamo molto nella Sua partecipazione alla vita della città da persona attiva e consapevole. Abbiamo voluto segnalarLe questa importante opportunità perché non vada perduta e perché la Sua cittadinanza di fatto diventi effettiva. La invitiamo quindi a seguire le indicazioni della lettera allegata e speriamo di poterLe ufficializzare presto la cittadinanza. Nel caso ciò non sia possibile per mancanza di requisiti, La invitiamo ugualmente ad attivare il percorso di acquisizione secondo le norme di legge”.

mercoledì 4 maggio 2011

La folla metropolitana? Un rifiguio in cui rimanere (finalmente) soli

Melissa Febos, sul New York Times (Look at Me, I'm Crying), rovescia quasi due secoli di demonizzazione della metropoli (e di retorica comunitarista) con un bel pezzo, paradossale ma anche illuminante, in cui lo spazio pubblico (ma anonimo) della metropoli viene trasformato da paradigma della solitudine del cittadino contemporaneo in ultimo rifugio in cui rimanere - per un po' - soli con sè stessi.

E' vero: le strade affollate, le metropolitane, i nonluoghi e i viali anonimi e deserti della grandi città sono luoghi di indifferenza, di solitudine, di disumanizzazione, di assenza di relazioni. Ma in un'esistenza fatta di spazi stretti, di pettegolezzi, di continui giudizi, di social network e di geolocalizzazioni, di maschere e di finzioni, in cui il concetto di Privacy sembra essere diventato ormai obsoleto (Zuckenberg dixit), il bisogno di rimanere soli con sè stessi (che nulla ha a che vedere con il senso di solitudine più profondo e sostanziale) non riesce ormai più a trovare spazio se non in questi luoghi.

Tutto ciò è chiaramente paradossale; ma è innegabile che per trovare un po' di privacy, per lasciarsi andare, per pensare o per non pensare a nulla, è necessario rifugiarsi in quell'anonimato che solo le grandi folle e gli spazi pubblici possono garantire.

martedì 3 maggio 2011

Tre buone ragioni per preferire, a un giovane "in carriera", un partner della working-class

Blixa Scott è una giovane e brillante avvocatessa americana con un ottimo stipendio ed un lavoro qualificato in un prestigioso studio legale. Una classica protagonista da telefilm americano, insomma. Ha però un'anomalia: ai colleghi ed agli uomini che frequentano il suo ambiente lavorativo, continua a preferire il suo attuale compagno, un lavoratore manuale poco istruito, che svolge una professione ripetitiva, per nulla eccitante e pure sottopagata: in poche parole, un giovane (ce ne sono ancora) della "working-class".

Blixa sa di contravvenire alla vecchia consuetudine che vede la giovane donna chiamata a scegliere il proprio partner tra i giovani che hanno uno status sociale, uno stipendio ed un livello di istruzione almeno simile, o meglio superiore, rispetto al suo (meglio ancora se è un principe). E colleghi, amici e familiari, non mancano certo di farglielo notare offrendo anche le loro interpretazioni di questa anomalia: su tutte, una mancanza latente di autostima e self-confidence, la volontà di dominare il partner ("più toy-boy che boyfriend") e i residui di quella tensione adolescenziale alla ribellione ed alla sterile rottura degli schemi.

A queste congetture, Blixa Scott ha risposto con una sorta di manifesto in cui riassume le tre principali ragioni per cui, ad un giovane colletto bianco in carriera, preferisce e continuerà a preferire un colletto blu, un giovane della working-class. L'articolo completo, lo trovate (in inglese) su Alternet (3 Huge Reason I'd Rather Be With My Working-Class Boyfriend Than a Rich Guy).

Eccone alcuni estratti.

1. He’s fun.

The nature of my boyfriend’s work gives him the freedom to let loose and be himself in a way that that many professionals just can’t afford to do, and that makes him far better company. Because success in a white-collar office is essentially a matter of public relations, professional life has an unfortunate tendency to whitewash one’s personality and homogenize one’s lifestyle. In my office, if an ambitious professional hopes to rise up the ranks, he must set about grooming his image to appeal to his superiors and clients. He must partake of appropriate hobbies, espouse acceptable political positions, and generally refrain from conduct that might mark him in any way as unconventional. (...) Every so often, we’re required to attend a work-related charity auction or dinner party, and these affairs usually manage to be both dull and stressful. They’re always predictable: the guests will almost all be couples (single people are looked on with suspicion). Among those who drink, they will have a maximum of two glasses of wine or upscale beer (never hard liquor). The conversations will consist of the following topics: work, home-improvement projects, recent vacations, marathon or triathlon training, the newest technological gadgets, and recent news items that are acceptably non-controversial. By 11:00, everyone will agree that they’re exhausted and will retire home to watch TiVo and analyze the social dynamics of the evening. In contrast, when I get together for dinner with my boyfriend’s working class crowd, it’s a party. There will be heated discussions of religion, politics, and sex. There will be story-telling that has everyone crying with laughter. Secrets will be spilled. Someone will declare that it’s time for a round of shots. Someone will embarrass themselves, which will provide a good story for the next time. Some people will bow out early, but others will keep going until two or three in the morning.

2. He’s happy.

My job is good for generating income, but it’s not particularly good at generating happiness. Lawyers are a notoriously miserable bunch. The long hours, solitary work, and necessity of tracking your time in six-minute increments produce enormous stress. And there are several good reasons why his working-class lifestyle produces more happiness. First, because he’s paid by the hour, there’s no taking work home. When he’s off the clock, he’s free. He isn’t expected to constantly check his email or field conference calls. He doesn’t have to go in on the weekend to impress his boss (and if he did, he would get overtime, not just brownie points). In general, he doesn’t worry about work unless he’s working. His time is his own. Second, when he gets home from work, he may be physically tired, but he’s mentally charged. There’s a big difference between the kind of physical exhaustion he feels, which is often easily remedied by a big meal, and the more pernicious mental exhaustion I experience. Third, he enjoys a deep sense of camaraderie with the men he works with, which is healthier than the competitive social environment of my office.

3. He’s sexy. 

This one is simple: a physical job leads to a great physique. I used to wonder how he could maintain such a great body without ever doing exercise, until he reminded me that he does slow but steady exercise all day long. He has no reason to go to the gym when he spends eight hours every day squatting, climbing, and lifting. My boyfriend doesn’t have to face the choice between hours of leisure time spent exercising or physical decline. His work naturally keeps him fit. And his particular brand of fitness seems functional and balanced in a way that’s both alluring and difficult to replicate by pumping iron or hitting the running track. For this, once again, I have his job to thank.
 Il pezzo completo su Alternet

lunedì 2 maggio 2011

La "nuova" nuova destra europea? [Cas Mudde]

L'autorevole Open Democracy aggiunge la sua voce (The new new radical right: spectre and reality) al fondamentale dibattito sull'emergere della nuova destra xenofoba in Europa. Il simbolo di questa "nuova" destra (le cui origini si perdono però nei lontani anni '80), anche per Open Democracy, è tra l'altro quel Geert Wilders di cui abbiamo parlato diffusamente anche da questo blog (Concretezza, coraggio, ideali? Geert Wilders (e la Santanchè) come falsi supereroi contemporanei).

La studiosa Cas Mudde, autrice dell'articolo, è in particolare efficace nel mostrare la galassia di movimenti e tensioni da cui la nuova destra europea trae origine, e nel sintetizzarne le molteplici spinte fondamentali (e spesso incoerenti): il culto populista del (super)uomo forte e l'adozione della retorica democratica, il teorema del grande conflitto di civiltà e i localismi ed i particolarismi etnici, l'etnocentrismo suprematista ed il razzismo differenzialista (ciascuno ha il diritto di fare ciò che vuole, purché a casa sua).

Questa analisi porta la studiosa ad affermare che non esiste "una" internazionale della destra xenofoba europea che sta prendendo possesso del continente, ma piuttosto una costellazione di movimenti molto forti a livello locale ancora incapaci di fare rete.

Come a dire che forse ci dovremmo tutti concentrare a combattere la destra che spadroneggia nelle nostre strade senza perdere tempo inseguendo i fantasmi di apocalissi globali o complotti internazionali.