venerdì 30 settembre 2011

Solo una cosa in testa. Fenomenologia del "sessocentrismo" (II)

(torna alla Parte I)

Il "sessocentrismo", cioè la centralità che il sesso (allusione racconto e esperienza) ha assunto nella società contemporanea, tale per cui il divario fra la realtà e la rappresentazione (e il socialmente desiderabile) in tema di sesso provocano nell'individuo quella tensione mista a frustrazione che trasforma il sesso in elemento che monopolizza l'immaginario e l'esistenza, è nella società contemporanea un fenomeno tutt'altro che giovanile.

Al contrario: il "sessocentrismo" è un fenomeno che riguarda la società nel suo insieme. 

mercoledì 28 settembre 2011

Solo una cosa in testa. Fenomenologia del "sessocentrismo" (I)

(Silvio Berlusconi)
"La promiscuità del sesso tra adolescenti è sovrastimata", scrive Repubblica citando due ricerche (Sesso senza amore tra adolescenti."Tante chiacchiere, poche verità"). Fra gli adolescenti, il sesso continua ad essere l'argomento cool per eccellenza e le esperienze sessuali, vere o ritenute credibili, una chiave per guadagnare status all'interno del gruppo dei pari. Da un lato i ragazzi tendono a creare storie e leggende, ad enfatizzare le proprie esperienze e a sovrastimare le esperienze altrui; dall'altra, tentano disperatamente di colmare il divario fra la loro realtà e questo ambiente immaginario in cui tutti se la spassano alla grande andando a caccia di rapporti sessuali - con l'aiuto, in caso di timidezza, di alcol, denaro, e senso di disinibizione da vacanza. 

Certo, l'immaginazione continua a superare la realtà. Scrivono gli studiosi: "se da una parte il 45% degli intervistati ha ammesso di non aver mai avuto un rapporto occasionale, solo il 3,7% crede che lo studente-tipo sia sessualmente morigerato. E sebbene solo il 37% abbia avuto due o più rapporti da "one night stand", il 90% è convinto che questa sia la media di ogni coetaneo. Il quadro, spiega la studiosa, rivela come l'idea che i ragazzi hanno dei compagni e della vita sessuale altrui sia enfatizzata dalle chiacchiere di corridoio, e lo conferma il fatto che la stragrande maggioranza (84%) abbia ammesso di parlare continuamente di "hooking up" con i coetanei". Ma è proprio questo divario fra realtà e rappresentazionel'impressione che tutti "se la stiano spassando" e che una vita priva (o povera di) sesso (o una vita sessuale monotona) sia incompleta, ad amplificare il fenomeno e a trasformarlo, da aspetto fra gli altri, a vero e proprio chiodo fisso.
La verginità, e poi il non avere un partner più o meno ufficiale da esibire ai pari, diventano così macchie insostenibili che rovinano l'esistenza sociale e l'autostima individuale: da qui l'enorme dispiegamento di forze e di risorse alla disperata ricerca di qualcosa da raccontare.Tensione che alimenta intere economie (vestiti, profumi, automobili, viaggi, aperitivi, fitness, "eventi", serate nei locali) e che finisce per monopolizzare il tempo libero; finendo, per mancanza di fantasia o semplicemente perché gli altri orizzonti sono grigi, per monopolizzare l'esistenza.

Parte II

martedì 27 settembre 2011

Se i bamboccioni emancipassero i genitori...

Ilvo Diamanti, sulla Repubblica, affronta il tema dei trenta e quarantenni che continuano a vivere a casa (o nell'orbita della casa) dei genitori da un punto di vista differente (Se i figli trentenni se ne andassero di casa). Invece di "incolpare" i giovani (mammoni, bamboccioni e quant'altro) o ancora i meccanismi sociali (mercato del lavoro, welfare tutto orientato alla tutela degli adulti e degli anziani), infatti, Diamanti riflette infatti sulle ragioni che spingono i genitori a fare il possibile per trattenere i figli a casa, continuando in questo modo a sentirsi, loro per primi, utili e giovani.

Forse, chi diventa genitore non dovrebbe dimenticare di essere prima di tutto anche una persona (evitando di lasciarsi monopolizzare e inghiottire da quello che, di fatto, è "semplicemente" un ruolo).

Scrive Diamanti:
In Italia il sostegno pubblico è tutto a favore delle generazioni più anziane. E l'istituzione che si accolla i costi della formazione e dell'apprendistato biografico delle generazioni più giovani è, soprattutto, la famiglia. I genitori, che affrontano l'assistenza dei "nonni", con il ricorso alle badanti. E offrono asilo (è il caso di dirlo) ai figli, sempre più a lungo. Anche quando mettono su famiglia e fanno a loro volta figli. E vanno ad abitare al piano di sotto o nell'appartamento di fronte. Così da poter affidare i figli ai nonni. Per questo nel caso del quarantunenne allontanato di casa dai genitori non stupisce tanto la "resistenza" del figlio-adulto, ma, semmai, la ribellione dei genitori. In questa società senza più confini generazionali, dove il passaggio tra giovinezza - età adulta e anziana  -  vecchiaia avviene in modo fluido e in-definito, i genitori raramente si ribellano. Non tanto perché è difficile - i figli sono sempre figli. Ma perché ai genitori, in fondo, non conviene spezzare il legame con i figli. Anche se li mantengono a lungo, la casa è  un porto  e un posto di passaggio, senza orari e senza programmi. Però, non sono solo i figli ad aver bisogno dei genitori. È vero anche il contrario. Se i figli unici se ne andassero davvero. A trent'anni e anche prima. Se "abbandonassero" i genitori. I genitori che farebbero? Perderebbero il  "controllo" sui figli e sulla loro biografia. Si ritroverebbero soli - o peggio: insieme ai nonni, poco autosufficienti. Per questo il caso del quarantunenne di Mestre ha suscitato tanto interesse, ma anche tanta preoccupazione. Tra i gli adulti. Cosa succederebbe se il contagio si propagasse? Se molti altri "giovani" trentenni se ne andassero? Non per costrizione, ma per attrazione. Sedotti dal richiamo del Pifferaio di Hamelin, che li guida verso la Terra dell'Autonomia e dell'Indipendenza. Senza di loro, i genitori si scoprirebbero soli. E vecchi. All'improvviso. Senza più alibi. Aggrediti dalla noia e dalla tristezza.
 Forse sarebbe il caso di relativizzare il comandamento IV. Chiaramente, per il bene loro.

lunedì 26 settembre 2011

Lo shopping non ci salverà - il consumismo al tempo della crisi

Suzanne Moore, sul Guardian, riflette in chiave critica sul destino e sul morale degli abitanti della contemporanea società dei consumi al tempo della crisi ("Shopping is not a hobby and it's not a patriotic duty, either"). Crisi che accentua, prima di tutto la frustrazione della shopping victim: se la felicità è veramente proporzionale alla quantità ed alla qualità di merce acquistata ed accumulata, che ne è del nostro umore in un'epoca in cui il reddito disponibile pare destinato (causa la stessa crisi della società dei consumi) ad essere stabile se non in costante contrazione?
What I deeply resent is the idea that shopping – especially for women – is some kind of leisure activity. Shopping to feed and clothe a family is often a chore, not a bleedin' hobby. As for window shopping? Looking at stuff you can't afford? Culturally legitimated masochism. [...] No one talks about materialism any more, for fear of sounding like a Marxist. Away with that downtrodden nonsense! Anti-consumption arguments are seen to come from the joyless greens, "ethical" do-gooders or people with dogs on strings. Don't they know when the going gets tough, the tough go shopping? But the going has got tough. As disposable income falls, it's tough and we can't afford it. [...] Strangely, all indices of happiness show that reducing rather than expanding consumer choice brings down anxiety. Our identities must be forged out of something other than what we buy. [...] We could value each other for something other than what we buy. We could say less is more. We could let shops shut. We could break up the monopolies. Only a deeply troubled society would think retail therapy could cure it. Shopping will not save our souls. We have been consuming that illusion for way too long.

venerdì 23 settembre 2011

Libano: spiagge per sole donne e liberazione femminile

Il Palms resort di Khaldeh, Libano, è uno fra i resort per sole donne più in voga. Il Daily Star ci dischiude questa "oasi di serenità" cercando di indagare le ragioni che spingono le donne a scegliere questo tipo di ambiente (Oasis of calm at Lebanon's women-only beaches).

According to Dbeir, a mother who devoted her life to opening up a full relaxation zone for women, the purpose of a women’s beach is not specifically to devalue mixing sexes but rather to offer comfort to women who are displayed at the beach like they would be in their private homes, explained the founder of Palms. But despite this simple pursuit, Dbeir finds that women’s beaches are often misunderstood. “I met an American woman once who was shocked by the idea of a women’s beach so I showed her some pictures of the resort and her attitude completely changed. She understood that it is an atmosphere for relaxation and comfort for women rather than a segregating factor,” Dbeir explained. [...] Bahiya Marji, 27, who lives in Italy echoed the sentiment: “We are not veiled but for personal comfort we enjoy it here. As I am pregnant, I also feel more at home".

Molto probabilmente, dietro questa apparente serenità si nascondono un certo numero di attriti, pensioni, disagi: uno spiccato senso del pudore ed un rapporto poco sereno con il proprio corpo (e con lo sguardo altrui), quel mix di "sesso-centrismo" e di "sessuo-fobia" (l'idea che la visione del corpo scatena sempre e comunque impulsi bestiali che minano la serenità della vita morale) che accomuna le tre grandi culture religiose del Mediterraneo, una cultura patriarcale che vuole mettere la donna al riparo da qualsiasi possibilità di promiscuità. Non è tutto oro quel che luccica.

Ma non v'è dubbio che, per molte donne libanesi (e stiamo parlando degli strati sociali più istruiti, cosmopoliti e sofisticati) e non solo, questi luoghi rappresentino uno spazio di libertà, di autodeterminazione, di apertura. Spazi che possono frequentare con serenità, prendendosi una pausa dalla società maschile, sentendosi "come" (anzi "meglio che") a casa; anche perché, per l'oro, le alternative (adatte al loro senso di pudore, cioè compatibili con le pressioni sociali esterne e/o interiorizzate) a questi luoghi sarebbero state molto probabilmente due: non andare al mare, oppure andarci per rimanere immobili sotto l'ombrellone completamente imbacuccate.

Che ci pensassero, a destra, gli integralisti della "liberazione femminile".

giovedì 22 settembre 2011

Estonia: Impulsi mistici liberati dalle nomenklature religiose

L'Estonia è, secondo le statistiche, la nazione meno religiosa d'Europa: secondo il censimento, meno di un estone su tre dichiara di appartenere ad una qualsiasi confessione religiosa.
Il Guardian dedica un articolo al rapporto fra gli estoni e la religione, ricostruendo le radici storiche di questa scarsa osservanza, riconoscendo anche però come alll'allontanamento dalle religioni istituzionalizzate non corrisponda sempre una totale perdita del sentimento religioso, della ricerca di fonti di etiche e di senso e della credenza in entità soprannaturali ("Is Estonia really the least religious country in the world?").
A Eurobarometer poll in 2005 found that only 16% of the Estonian population believed in God. With this number, Estonia hit the bottom of the list. However, at the same time more than half the population (54%) believed in some sort of spirit or life force. Thus it could be claimed that 70% of the Estonian population are believers, at least in some sense of the word. Professor Grace Davie's description of the British religiosity as "believing without belonging" seems to fit to the Estonian context as well.
A caratterizare l'Estonia è quindi piuttosto la debolezza delle istituzioni religiose (viste prima come un'emanazione delle potenze che occupavano il paese, e poi mantenute lontane dalla vita pubblica durante la fase filo-comunista ma anche durante la liberazione). Questa debolezza rende gli estoni liberi di riconoscersi indipendenti da qualsiasi appartenenza di natura religiosa, lasciandoli soli di fronte alle grandi domande e stimolando la loro ricerca di senso. (Al contrario dell'Italia, paese in cui invece si appartiene senza credere, dove questo genere di ricerca è rimasto sterilizzato per secoli).

Fioriscono così, tra gli altri, percorsi di scoperta e riscoperta che si suole catalogare sotto l'etichetta di "neo-paganesimo".
A new phenomenon during the last 15 years has been the rising number of Estonians identifying themselves with a nature-spirituality that could be defined as the Estonian neo-paganism. However, exactly what this is is much more difficult to explain, as it stresses individualism in religious matters. Estonian neo-paganism is closely associated with reverence to nature as well as reviving and following the centuries-old folk traditions, such as the lighting of bonfires during the summer solstice. Reverence for nature and vocal protection of historical sacred groves has given a positive image to the movement and to their religion, known also as the Earth religion.

mercoledì 21 settembre 2011

L'Italia rurale è morta e sepolta

Fabrizio Bottini (ne abbiamo già parlato riguardo l'"ideologia suburbana") descrive, in uno splendido articolo (Città e campagna: aveva per caso ragione il Duce?), il presunto dualismo fra campagna e città mostrando nei fatti come l'Italia rurale, tanto in auge nell'immaginario contemporaneo (dalle sagre ai musei della civiltà contadina, dagli spot del Mulino Bianco alla chimera della villetta fuori porta), nei fatti non esista più; sostituita, ormai da decenni, da una provincia cementificata ed interconnessa alle metropoli, fatta di quartieri dormitorio quasi completamente privi di qualsivoglia genuino "colore locale", che non fanno da teatro ad alcun idillio (e nemmeno ad alcun peculiare stile di vita) rurale ma piuttosto alla solitudine ed alla miseria del marginale e del pendolare. E forse, la favola della persistenza di un'altra Italia rurale non è altro che il risultato dell'incapacità di dare un senso nuovo a questa terra desolata.

Bottini è sempre molto duro, ma confesso di riconoscermi nelle sue invettive; anche e soprattutto quando sostiene che della provincia questi luoghi conservano solo un tratto (il tratto peggiore), e cioè lo scarsissimo fermento culturale. Scrive con Bottini: 
Il territorio urbanizzato, in assenza di una corrispondente cultura urbana dello spazio pubblico rivendicato e governato, è invece sconosciuta terra di nessuno, o meglio di qualcuno che attende il momento buono per cavarci il massimo profitto. Tutto il peggio della campagna in termini culturali, tutto il peggio della città in termini di qualità fisica dell’insediamento. Eppure, a qualche centinaio di metri di distanza, uno dei temi ricorrenti di un pur virtuoso piano regolatore a zero consumo di suolo è stato quello dell’identità locale: preservarla dalla confusione metropolitana. Forse un buon cavallo di battaglia elettorale per un sindaco: ma per il resto del mondo, e più in generale per la chiarezza molto probabilmente no.

martedì 20 settembre 2011

L'Europa sull'orlo di una crisi di nervi. La classifica delle forme di disagio mentale

Quanto è diffuso il disagio mentale nella popolazione europea? Più in particolare: quali sono gli ordini di grandezza delle diverse "patologie"? L'Economist, partendo spunto da una ricerca a livello europeo, pubblica un grafico che, pur tra mille dubbi (la diagnosi di queste malattie è quanto di più incerto e interessato vi possa essere) e mille arrotondamenti, da una visione d'insieme del fenomeno.

Visione d'insieme che porta a due osservazioni: sulla grande diffusione complessiva di problematiche, e sulla differenza tra realtà dei fatti e percezione/discorso politico. Disordini alimentari, dipendenza da droghe e ADHD, tematiche centrali nel discorso mediatico e politico, sono infatti agli ultimi posti; le fobie, i disordini psicosomatici, la dipendenza da alcol e gli stati d'ansia cronici toccano al contrario diverse decine di milioni di persone. E soprattutto, 30 milioni di europei (che fa il 6,9% della popolazione) soffrono di depressione.


(Fonte: Economist)