Fabrizio Bottini (ne abbiamo già parlato riguardo l'"ideologia suburbana") descrive, in uno splendido articolo (Città e campagna: aveva per caso ragione il Duce?), il presunto dualismo fra campagna e città mostrando nei fatti come l'Italia rurale, tanto in auge nell'immaginario contemporaneo (dalle sagre ai musei della civiltà contadina, dagli spot del Mulino Bianco alla chimera della villetta fuori porta), nei fatti non esista più; sostituita, ormai da decenni, da una provincia cementificata ed interconnessa alle metropoli, fatta di quartieri dormitorio quasi completamente privi di qualsivoglia genuino "colore locale", che non fanno da teatro ad alcun idillio (e nemmeno ad alcun peculiare stile di vita) rurale ma piuttosto alla solitudine ed alla miseria del marginale e del pendolare. E forse, la favola della persistenza di un'altra Italia rurale non è altro che il risultato dell'incapacità di dare un senso nuovo a questa terra desolata.
Bottini è sempre molto duro, ma confesso di riconoscermi nelle sue invettive; anche e soprattutto quando sostiene che della provincia questi luoghi conservano solo un tratto (il tratto peggiore), e cioè lo scarsissimo fermento culturale. Scrive con Bottini:
Il territorio urbanizzato, in assenza di una corrispondente cultura urbana dello spazio pubblico rivendicato e governato, è invece sconosciuta terra di nessuno, o meglio di qualcuno che attende il momento buono per cavarci il massimo profitto. Tutto il peggio della campagna in termini culturali, tutto il peggio della città in termini di qualità fisica dell’insediamento. Eppure, a qualche centinaio di metri di distanza, uno dei temi ricorrenti di un pur virtuoso piano regolatore a zero consumo di suolo è stato quello dell’identità locale: preservarla dalla confusione metropolitana. Forse un buon cavallo di battaglia elettorale per un sindaco: ma per il resto del mondo, e più in generale per la chiarezza molto probabilmente no.
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