venerdì 29 aprile 2011

I rituali Indù e l'ecosistema di Jamaica Bay, Manhattan

Gusci di noce di cocco, candele votive, ceneri funerarie e statuette di divinità, donate alle acque secondo il rituale Indù sullo sfondo della skyline di New York. Accade a Jamaica Bay, parco acquatico protetto a due passi da Brooklin e dal Queens, luogo scelto dai tanti immigrati di origine Indù per compiere i loro rituali sacri incentrati sull'acqua in quanto elemento di contatto e di scambio con il vitale e con il divino. Con un piccolo problema: i fiori, i gusci, le statue e le stoffe abbandonate alle acque stagnanti di Jamaica Bay sporcano il paesaggio, disturbano i pescatori e gli appassionati di kayak, e sembrano mettere a repentaglio il fragile ecosistema marino.

La storia ed i tentativi di mediazione fra religiosi indù ed ambientalisti è raccontata magistralmente dal New York Times (Hindus Find a Ganges in Queens, to Park Rangers’ Dismay) - ci prova col "copia-traduci-incolla-e non citare!" anche Repubblica, ma omettendo diversi dettagli importanti. Colpisce, in particolare, come questo conflitto potenzialmente insanabile (tra esigenze apparentemente inconciliabili e tra opposti fanatismi) sia stato fin dall'inizio ridimensionato dalla propensione al dialogo ed alla reciproca compensione.

L'immagine dei fedeli indù (in buona parte discendenti degli indiani deportati in periodo coloniale nelle piantagioni caraibiche), figli della diaspora che hanno imparato ad essere flessibili anche sul piano religioso e rituale (abituati come sono a proiettare la sacralità sui luoghi, e non viceversa), che ripuliscono le spiegge insieme ad ambientalisti e ranger (è difficile pensare che i gusci di noce di cocco siano l'unico inquinante trovato in quelle acque) (e gli appassionati di kayak dove sono?), è probabilmente una delle immagini più belle e edificanti degli ultimi tempi.

giovedì 28 aprile 2011

Glocalizzazione: McDonald's tra universale e particolare

McDonald's, la catena di fast food accusata di colonizzare ed omogenizzare il mondo, deve in realtà il suo successo alla capacità di assecondare il gusto dei consumatori cui si rivolge; gusto che varia da luogo a luogo (da gruppo sociale a gruppo sociale). Ne parla Global Sociology Blog (Particularizing The Universal - McDonald's  Edition), rifacendosi ad una lista di particolarità compilata da Buzz Feed (45 McDonald's Items Not Available in the U.S. that should be), per il quale gli adattamenti di McDonald's sono soprattutto un pretesto per parlare di glocalizzazione e di rapporto tra globale e locale, universale e particolare.
McDonald's rappresenta da circa due decenni una sorta di tappa di riflessione obbligata per tutti coloro che vogliono riflettere sulla globalizzazione soprattutto nella sua dimensione culturale. Tipicamente, McDonald's è considerato l'icona della standardizzazione e dell'impoverimento delle culture; i menù locali di McDonald's sono quindi importanti soprattutto perché mostrano come al contrario anche un colosso come McDonald's sia in una certa misura influenzato dal gusto dei consumatori locali.
Da un lato è eccessivo parlare di McDonald's unicamente come agente di omogenizzazione e di colonizzazione delle abitudini, del gusto e dell'immaginario: da una parte McDonald's deve parte del suo successo anche alla capacità di adattarsi alle abitudini e delle necessità dei gruppi cui si propone, dall'altra parte McDonald's rappresenta per gruppi diversi di persone (nello spazio, nel tempo e nella scala sociale) cose diverse. Dall'altra parte, però, dietro alle differenze di facciata McDonal's si nascondono i medesimi processi di semplificazione e standardizzazione, e la medesima insana cultura del fast food - anche se non dobbiamo dimenticare che è la cultura dello slow food (e non la cultura dell fast street food, non per nulla molto più diffusa nel sud del mondo e nel nostro passato che nell'occidente contemporaneo) ad essere un'invenzione recente posticcia ed elitaria.

mercoledì 27 aprile 2011

Manuale per un aspirante medium - Sai Baba e l'avatar che vorrei

Dieci giorni fa è morto il santone indiano - famoso anche in occidente, e a capo di una grande setta strutturata con sedi in decine di paesi del mondo - Sai Baba. Ne ho già parlato ()ieri, sostenendo che Sai Baba è un fenomeno interessante perché altro non è che una delle manifestazioni più macroscopiche di quel bisogno di fuga (dal logorio della vita moderna, dall'assenza di senso, dalla disperazione) verso una realtà altra - comune ai seguaci di coloro che hanno intrapreso il mestiere più antico del mondo, cioè il mestiere di medium.

A sostegno di questa prospettiva che interpreta Sai Baba prima di tutto come proiezione (e quindi cartina da tornasole) dei desideri dei suoi seguaci, e quindi delle esigenze di coloro che cercano la salvezza in un medium e in una realtà altra, vorrei riportare, a mo' di documento, alcuni stralci di testimonianze di ex seguaci delusi e risentiti ("vittime", cui va comunque solidarietà e vicinanza) tratte dall'archivio di exBaba.it.


La prima testimonianza è di una donna svedese, Asa Samsioe, che ha visitato l'ashram di Sai Baba tre volte, la cui delusione deriva dal fatto che "Sai Baba non corrisponde alla sua idea di ciò che un avatar dovrebbe essere"
Il mio avatar non dovrebbe essere così appassionato di fasto e lusso come Sai Baba (anche se lui sostiene di non esserlo...). Perchè Sai Baba deve camminare su tappeti rossi, che i suoi devti devono spazzolare e pulire prima di ogni suo darshan? E perchè deve circondarsi di tutti questi monumentali e pomposi edifici, e macchine, che puzzano di danaro e materialismo, in netto contrasto con la poverta che lo circonda in India. Le azioni del mio avatar dovrebbero essere molto più difficili da prevedere. Non dovrebbe rimanere attaccato alla stessa routine tutti i giorni. Per non parlare di questo ridicolo mettersi in fila e lotterie... Il mio avatar dovrebbe camminare tra i suoi devoti nel suo modo imprevedibile... E non dovrebbe sottovalutare l'intelletto dei suoi devoti, parlando ancora e ancora delle stesse cose... E sicuramente non dovrebbe circondarsi con tutte quelle guardie del corpo. Nè dovrebbe sottoporre i suoi devoti a queste continue perquisizioni corporali prima del darshan. Di cosa può aver paura Dio? Il mio avatar dovrebbe apprezzare le donne nello stesso modo degli uomini. Se siete buoni osservatori, certamente vi accorgerete della differenza...che Sai Baba sembra molto più brusco e indifferente quando cammina nel settore delle donne. Basta che guardiate le sue video cassette e paragoniate le sue espressioni... Qualcuno sa dirmi perchè Sai Baba ha sempre preferito circondarsi di uomini? Cosa ha a che fare il genere con la spiritualità? Un viaggio dal mio avatar avrebbe dovuto portare ad un ovvio "ricaricarsi delle batterie", non a malattie di vario tipo, come influenza gastrica e malanni di vario tipo. Non ti aspetteresti di sentirti così indebolito dopo una visita a Dio stesso. Al contrario, dovresti essere carico di energia, che mette in movimento il tuo sistema immunitario. Nè ti aspetteresti che la tua pianta preferita, che aveva avuto il grande onore di essere posta accanto al ritratto di Sai Baba, sia la prima nella stanza ad avvizzire...
La seconda testimonianza è di Paola, ex seguace perché Sai Baba ha declinato ogni responsabilità per le conseguenze delle azioni intraprese dai suoi devoti in seguito a quanto da lui dettogli in sogno.
Le spiegherò il motivo per cui io e mio marito abbiamo lasciato Sai Baba. Deve sapere che divenimmo suoi devoti 15 anni fa, quando ancora vivevamo in Italia. In quel periodo, in cui ci eravamo avvicinati a lui, comprammo una casa, il sogno di tutta una vita, che si rivelò subito dopo una emerita truffa. Naturalmente ci apprestammo a sporgere denuncia disperati, ma soprattutto mortificati dal fatto che il denaro per l'acquisto ci era stato offerto dai miei genitori, per giunta guadagnato con lunghi e duri sacrifici. Alla denuncia seguì il processo che vide condannato a 3 anni di galera il truffatore, con nostra grande soddisfazione. Immediatamente dopo, cominciai a sognare Sai Baba che mi rimproverava per il nostro accanimento verso quell'uomo e mi diceva che non dovevo fare nulla perchè il giudice era lui, come pure il giudizio. Credendo ciecamente alle sue parole e, maggiormente sentendomi colpevole per aver "reagito" ad una situazione che avrei dovuto lasciare così come era in virtù del mio karma da bruciare, quando si trattò di presentarci all'appello al quale il furfante aveva fatto ricorso, non ci presentammo affatto convinti che Baba avrebbe pensato a tutto lui, sia nel bene che nel male. Così, non avendo apportato un bel nulla a nostra discolpa, il giudice assolse quell'individuo (con un casellario penale da far paura) e noi perdemmo la nostra casa. Affrontammo questa avversità con coraggio, ritenendo giusta la conclusione nel rispetto della "volontà di Baba" e con la gioia di aver fatto un passo avanti nell'applicazione del distacco. Da allora sono passati 15 anni fino a che, pochi mesi fa, leggendo un libro del dott. Rosati (suo fervente devoto, con il quale avevo dei contatti epistolari) nel quale si rivolgeva a Baba una domanda specifica sui sogni, fummo presi dallo smarrimento di fronte alla risposta: dopo la bellezza di 65 anni, durante i quali Baba aveva sempre affermato che soltanto i sogni in cui lui era presente dovevano considerarsi reali e forieri di messaggi ed insegnamenti, oggi si rimangiava tutto dicendo che anche quelli in cui lui appare sono frutto della nostra fantasia, del nostro subconscio che sceglie il volto che più gli fa comodo per esaudire i nostri desideri inconsci. A quel punto ci è crollato il mondo addosso: avevamo perso la nostra casa soltanto per aver dato credito ad una fantasia e non perchè era lui stesso che ci aveva parlato e non avevamo nemmeno tentato di fare qualcosa. Ci domandammo allora quante persone in buona fede aveva ingannato con la storia dei sogni: qualcuno, forse, aveva scelto un lavoro invece di un altro e, magari, facendo la scelta peggiore; qualcuno si era curato con la vibuthi, rischiando anche di andare al cimitero, qualcun altro aveva abbandonato la moglie o il marito oppure rinnegato un'amicizia vera, qualcuno aveva venduto tutto per trasferirsi in India, e qualcun altro aveva abbandonato persino il proprio figlio, come è successo anni fa in quel di Puttaparthi perche` in sogno Baba le aveva detto di farlo, e chissà quanti avevano intrapreso il viaggio della speranza con l'illusione di una guarigione, a costo anche di grandi sacrifici economici. Tutto sommato a noi era capitato il male peggiore! Oggi Baba se ne lava le mani, rinnegando, perchè probabilmente questa storia dei sogni gli ha creato chissà quanti problemi!!!
La terza testimonianza scelta è firmata Norberto Aiello, e lamenta la scarsa attenzione del santone e una mancata guarigione miracolosa.
Sentii parlare di Sai Baba nel 1990 e dopo aver letto molte cose incredibili su di lui e aver frequentato i suoi devoti, decisi di andare a vedere di persona. Da premettere che io sono affetto da distrofia muscolare progressiva, dall’età di 7 anni, e ora ne ho 49, e sono su una sedia a rotelle da oltre 20 anni. Ad ogni modo, feci il 1° viaggio nel 1993 in India a Whitefield, ed è stato affascinante, anche se Sai Baba non mi chiamò per l’intervista privata. lo stesso cominciai a lasciarmi prendere dal fascino della cosa e un poco alla volta ne diventai devoto anch'io. Infatti, nonostante le difficoltà affrontate, decisi di ritornare dopo 6 mesi in seguito ad un sogno, dove lui mi diceva di andare e che mi avrebbe ricevuto in udienza privata. E cosi partii per la volta di Puttaparthi. Il mio sogno rimase tale perché lui non mi chiamò. Ormai però ne ero diventato devoto fanatico e dopo 10 mesi ripartii ancora una volta. Il mio terzo viaggio, fatto nel mese di settembre del 1994, fu bellissimo perché questa volta Sai Baba chiamò il mio gruppo. Potete immaginare la nostra gioia visto che  ci credevamo sul serio. Ci fece accomodare e subito dopo materializzò della cenere che diede a tutti, poi materializzò una collanina d’oro ed un orologio di plastica che diede ad una ragazza indiana, poi un anellino che diede ad un bambino di 9 anni che, a detta di lui, aveva il cancro, ma lui lo avrebbe guarito. Poi fece accomodare noi italiani in un'altra stanza attigua a quella principale. L'interview fu breve soprattutto perché non c'era un interprete in grado di tradurre i nostri dialoghi. Ci promise che ci avrebbe richiamato nuovamente e soprattutto ci chiese di procurarci un interprete "migliore" del sottoscritto ma, prima di uscire, mi domandò perché ero sulla sedia a rotelle. Gli parlai della mia malattia e del fatto che ero comunque in grado di stare in piedi, sebbene con un equilibrio precario. Mi chiese di alzarmi. Impossibile, non ero in grado, così chiesi a mio nipote di aiutarmi a farlo. A quel punto mi guardò senza dire nulla fino a quando non fui costretto a sedermi perché le gambe non mi sorreggevano più. Dopo due giorni, Sai Baba ci richiamò un'altra volta. Questa volta era con noi l'interprete, una ragazza italiana, che era vissuta a Londra per 7 anni; entrammo nella sala delle interviste e lì, dopo aver materializzato tre anelli, ci chiamò per l'intervista privata. Eravamo in 6 e Sai Baba parlava con i ragazzi di cose varie. Ad un certo punto gli chiesi se voleva aiutarmi, (attenzione ho detto di proposito "voleva" e non "poteva" perché lui dice di essere Dio, e quello che vuole si realizza). Lui rispose che io avevo dei problemi all’addome, e con la mano girava intorno al suo stomaco, e mi disse che era molto difficile; ma se lui voleva tutto poteva (ed io ci credevo sul serio)."Ok" disse "ti dono la guarigione". Raggiante di gioia, chiesi all'interprete se avevo capito bene che intendeva la guarigione da questa terribile e inguaribile malattia. L'interprete chiese conferma di ciò a Sai Baba, e lui rispose "yes". Uscimmo dalla stanzetta e, davanti a tutti,  gli chiesi un dono e lui mi materializzò un anello con la sua immagine sopra. Continuai ad essere suo devoto per anni ancora, infatti, un anno dopo tornai in India, settembre 1995, lui non ci chiamò e non si avvicinò neanche, comunque io continuavo a credere che sarei guarito, e cosi andai avanti per altri 5 anni. Il tempo è trascorso, la mia fede è vacillata e la mia malattia è solo peggiorata.

martedì 26 aprile 2011

Il mestiere più antico del mondo. I segreti del successo di Sai Baba, il Padre Pio indiano

Domenica scorsa è morto Sai Baba, controverso santone e guru indiano idolatrato in Oriente e particolarmente apprezzato anche in Occidente (nonché brand delle scatole di incenso vendute in Italia dagli ambulanti).

Di Sai Baba parla - tra gli altri - La Stampa (E' morto il leader spirituale Sai Baba), che fa il punto sui "seguaci" vip accumulati soprattutto negli anni '70 ed '80 da quello che (insieme a Osho) è stata la principale icona contemporanea della religiosità e della filosofia orientale in occidente. Sai Baba, infatti, è stato tutto ciò che un occidentale cerca nell'Oriente: il suo successo è in gran parte dovuto alla sua capacità di incarnare e di soddisfare queste aspettative un po' stereotipate di Oriente in quanto cuore del misticismo, della ricerca interiore e della nonviolenza.

Icona alla moda (ma anche icona di cialtroneria, pedofilia e stregoneria) in Occidente, Sai Baba è stato in India una personalità particolarmente influente: una sorta di Padre Pio indiano con il quale i grandi politici indiani, i giocatori di cricket e i tycoon locali si sono sempre dovuti confrontare con rispetto. Girando per l'India non è difficile incappare in immaginette e ritratti di Sai Baba, apprezzato per la sua autoproclamata natura divina e per i "miracoli" ma anche per l'enorme rete di opere filantropiche (e quindi di clientele) che i suoi seguaci hanno saputo creare (strategia al contrario non perseguita dai faccendieri legati a Padre Pio).

In Oriente come in Occidente, comunque, Sai Baba è stato in grado di catalizzare bisogni fondamentali; in un certo senso, ha accettato - come ogni buon profeta in passato - di trasformarsi in maschera e in luogo di contatto tra la dimensione della realtà e la dimensione del misticismo o del soprannaturale. In altre parole, Sai Baba è stato in grado di incarnare efficacemente il bisogno di contatto con qualcosa che va oltre il normale nutrito da gruppi determinati in un'epoca precisa, assecondando questa tensione fondamentale.

Più che un semplice cialtrone, quindi, Sai Baba è stato piuttosto un caleidoscopio attraverso cui riflettere sulle debolezze e sulle miserie (transnazionali) del genere umano. Con la certezza che Sai Baba è stato, nonostante tutto, solo uno tra i tanti che nei secoli si sono cuciti - e allo stesso tempo si sono fatti cucire - addosso il ruolo sociale di "medium", che poi non è altro che mestiere più antico del mondo.

venerdì 22 aprile 2011

Le "rivoluzioni dei giovani"? Orientalising the Egyptian Uprising

Perché le ultime rivoluzioni nel Nord Africa sono piaciute tanto all'Occidente? Perché tanta attenzione da parte dei media e tanta solidarietà da parte dell'opinione pubblica (della sinistra come della destra)? Secondo Rabab El-Mahdi (Orientalising the Egyptian Uprising), ricercatore di scienza politica all'università americana del Cairo, alla base di tutto c'è il modo - distorto - in cui queste rivoluzioni sono state rappresentate.

I rivoluzionari maghrebini sono i primi arabi, dopo decenni, ad essere rappresentati come simili a noi (l'Occidente), o meglio come nostri ammiratori: non più come selvaggi minacciosi, come pezzenti profittatori, come fondamentalisti retrogradi, ma come giovani postmoderni istruiti, laici, volonterosi, amanti dell'occidente e della società dei consumi. 

Il cardine di questa rappresentazione è l'etichetta di "rivoluzione dei giovani" dove la categoria del "giovane" allude alla volontà di superamento della "vecchia" società araba retrograda e dove i giovani sono dipinti come aspiranti yuppies tutti FaceBook, Coca Cola e vestiti di marca (che implicitamente dimostrano che il nostro sistema di vita è migliore, ed anche per questo fanno tanto simpatia). Secondo El-Mahdi, però, anche questa interpretazione si basa su una forte distorsione della realtà; soltanto, alla classica distorsione orientalista dell'eccezione araba e dello straniero come Altro si è sostituita una "nuova" forma di distorsione che ha dipinto i "giovani" come uguali a noi o meglio ancora come nostri seguaci.

Anche se mi sembra ormai chiaro che tra i motori della rivoluzione vi siano indubbiamente anche quei giovani cosmopoliti in grado di sintetizzare i molteplici stimoli cui essi sono sottoposti in quanto arabi ma anche i quanto cittadini globali (almeno idealmente e telematicamente), l'etichetta di "rivoluzione dei giovani" rischia di rivelarsi riduttiva: le rivoluzioni nel nord Africa sono rivoluzioni borghesi ma sono anche e soprattutto rivoluzioni sociali per il pane e per il lavoro. Allo stesso modo, l'enfasi sulla somiglianza svilisce l'originalità, la forza ed anche le particolarità di questi movimenti trasformandoli in semplice tentativo di scimmiottare l'occidente. L'unico modo per evitare di scivolare in questa "nuova" forma di orientalismo è quello di continuare ad osservare e a provare a capire cosa succede e cosa succederà anche dopo che questi movimenti passeranno di moda.

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Si ringrazia Lorenzo per la segnalazione

giovedì 21 aprile 2011

L'abito fa il Monaco. Il Pellegrinaggio come incontro con l'ignoto accuratamente organizzato

Intrecci, bel blog di Antropologia Culturale, pubblica un brevissimo saggio (a firma Maria Lucia Mette) che ha per oggetto il Pellegrinaggio (Pellegrinaggi. Breve storia fra viaggio e fede). Ve ne consiglio vivamente la lettura. Meritano attenzione soprattutto le considerazioni sulla "geografia del sacro", sull'uso massiccio di simboli e rituali e sull'organizzazione e "standardizzazione" degli spazi che fanno del pellegrinaggio, retoricamente parlando momento di "incontro con l'ignoto", un qualcosa di profondamente normato e codificato.

L'aspetto più interessante è, secondo me, l'idea di pellegrinaggio come spazio fortemente separato dalla quotidianità comune, come parentesi che si colloca radicalmente al di fuori del flusso regolare dell'esistenza. Persone nuove, luoghi nuovi, routine nuove, rituali nuovi, sensazioni nuove: il pellegrinaggio è anche e soprattutto evasione, frammento speciale di vita all'interno dell'esistenza più ampia. Fin qui, un pò come la settimana in crociera, alle terme o al villaggio vacanze.

Il contesto in cui il pellegrino spende questa sua parentesi è inoltre un contesto fortemente normato e codificato: tutto, dalla geografia dei luoghi all'abbigliamento ai rituali più minuti, è orientato alla costruzione di sensazioni ed emozioni particolari. Anche per questo il pellegrinaggio funziona: il pellegrino, infatti, si spoglia dei suoi abiti ma lo fa per indossare degli abiti nuovi, simbolici e carichi di aspettative che puntualmente verranno confermate dalle suggestioni. E' proprio il caso di dire che l'abito, se dotato di significato agli occhi di chi lo indossa, è più che sufficiente per fare - per qualche settimana - il monaco.

mercoledì 20 aprile 2011

Sciuscià a Mogadiscio, Escort a Pyongyang, Scolari a Benghasi

Il servizio informativo Irin - Africa ci porta per le strade di Mogadiscio, Somalia, tra i bambini di strada che per vivere lavorano come lustrascarpe al servizio dei potenti del posto e dei soldati dell'Unione Africana (Somalia: Shoe-shining in a Warzone).

Open Radio for North Korea (linkata da Internazionale) ci porta invece nei ristoranti da quattro soldi di Pyongyang, dove nel passaggio all'economia di mercato la competizione - più che sul cibo - si gioca sulla potenza sessuale e sui ritocchi estetici delle giovani cameriere (Pyongyang Restaurant's escort waitresses).

Foreing Policy, invece, ci porta in una scuola di Benghasi dove i bambini si annoiano ma imparano a curare le ustioni e a riconoscere il rumore delle diverse armi da fuoco (What is the Libyan revolution doing to the children of Benghazi?).

Buon viaggio.

martedì 19 aprile 2011

Anonimato in rete e politicizzazione dei prof

Leonardo, blogger di primordine e professore, sviluppa in un unico post (I diabolici Agit-Prof) due argomenti molto interessanti: quello dell'anonimato su internet come modo per evitare strumentalizzazioni e distorsioni pericolose anche e soprattutto per la vita "reale" (partendo dalla vicenda della blogger e prof. del Manzoni di Milano accusata da Repubblica di anti-semitismo) e quello della presunta politicizzazione dei professori italiani.

Nessuna delle due parti mi convince al 100%, ma entrambe mi sembrano tutto sommato ragionevoli.

Sul tema dell'anonimato: il ragionamento di Leonardo, anche se non è bello affermare che l'unico modo per evitare mistificazioni o ritorsioni è quello di mutilare la libertà di pensiero nascondendosi dietro ad uno pseudonimo; allo stesso tempo, l'anonimato è però anche salutare perché è un modo per rifiutare l'egocentrismo e il narcisismo patetico che popola anche la blogsfera.

Per quanto riguarda la politicizzazione dei professori, è vero che la routine scolastica non lascia tempo alla propaganda e che "qualora un prof cominciasse a fare propaganda antisemita, molti suoi studenti si convertirebbero all'ebraismo semplicemente per contraddirlo", ma è anche vero che professori e letterati sono spesso, per formazione e auto-selezione, soggetti mediamente molto più illuminati della media nazionale e che è anche grazie a loro se possiamo sperare di fuoriuscire, in un futuro non troppo lontano, dalla barbarie.

lunedì 18 aprile 2011

La chiesa napoletana e la superstizione

Qual è il confine tra religione e superstizione? Dove si colloca chi afferma di poter instaurare rapporti di scambio e transazioni (preghiere, donazioni e voti in cambio di "spintarelle sovrannaturali") con la divinità? Quale rispetto e quale autorità morale e culturale merita una chiesa che asseconda e accondiscende all'idolatria e alla superstizione più dozzinale pur di conservare il proprio consenso?

Il Cardinale di Napoli Crescenzo Sepe ha presenziato all'istallazione di una statua di San Gennaro alta oltre 4 metri a Capodimonte. Come riportato dal Corriere del Mezzogiorno il Cardinal Sepe avrebbe affermato che "Gli occhi di san Gennaro vigileranno sulla città perché Napoli ha bisogno di protezione. San Gennaro - ha proseguito Sepe - dalla collina di Capodimonte ci custodisce e ci aiuta questo momento così difficile per la nostra città. Questa più grande e più bella statua di san Gennaro, ci aiuterà a superare le ansie dei disoccupati e delle famiglie che non riescono ad arrivare a fine mese". 

Forse superare questa sciocca, inconcludente, infantile e superstiziosa visione del mondo, questo autocompiacersi per la propria pochezza e questo scrollare le spalle delegando da minorenni il proprio destino a qualche paladino folcloristico potrebbe essere il primo passo per migliorare le cose; e forse, la chiesa, avrebbe qualche possibilità ed anche qualche dovere in questo senso educando, istruendo, rendendo adulto il proprio gregge. Forse basterebbe un po' di illuminismo per migliorare le sorti di certi segmenti del sud Italia. 

Invece, niente. Poi si dice che parlare di "oppio dei popoli" è eccessivo e antiquato.

giovedì 14 aprile 2011

I trucchi del commercio imperialista [Louis-Ferdinand Céline, 1932]

Africa francofona, anno 1920 circa. Una famiglia di nativi entra nel "minimarket" di una grande stazione coloniale, gestito da europei, per vendere un piccolo carico di caucciù raccolto nella foresta. (tratto da "Viaggio al termine della notte" di Louis-Ferdinand Céline, 1932 - tr. it. di Ernesto Ferrero).
Mentre eravamo lì, una famiglia di raccoglitori, timida, viene a piantarsi sulla soglia della sua porta. Il padre, davanti agli altri, grinzoso, cinto da un piccolo perizoma arancione, il lungo machete appeso al braccio. Non osava entrare il selvaggio. Eppure uno dei commessi lo incitava: "Vieni musulmano! Vieni a vedere qui" Mica li mangiamo i selvaggi!" 'Sto linguaggio finì per deciderli. Penetrarono nella baita bollente in fondo alla quale strepitava il nostro uomo.
Il nero non aveva ancora, pareva, visto mai un negozio, e bianchi forse nemmeno. Una delle sue donne lo seguiva, occhi bassi, portando in cima alla testa, in equilibrio, il grosso paniere pieno di caucciù greggio. 
D'autorità i commessi s'impadronirono della cesta per pesare il contenuto sulla bilancia. Il selvaggio non capiva il trucco della bilancia più del resto. La donna non osava sempre alzare la testa. Gli altri negri della famiglia attendevano fuori, gli occhi bene spalancati. Li fecero entrare anche loro, bambini compresi e tutto, perché non si perdessero niente dello spettacolo. 
Era la prima volta che venivano così tutti insieme dalla foresta, verso i bianchi in città. Avevano dovuto metterci un bel po' tutti quanti per raccogliere tutto quel caucciù lì. Allora per forza il risultato interessava a tutti. E' lungo da far gocciolare il caucciù nelle piccole ciotole che s'attaccano ai tronchi degli alberi. Spesso, non riesci a riempirne un bicchierino in due mesi.
Fatta la pesa, il nostro grattatore trascinò il padre, sbalordito, dietro il banco e con una matita gli fece i conti e poi gli chiuse nell'incavo della mano qualche moneta in argendo. E poi: "Vattene! gli ha detto a 'sto modo. E' quel che ti viene!..."
Tutti gli amichetti bianchi si torcevano dallo scherzo, tanto lui aveva condotto bene il suo business. Il negro restava piantato mogio mogio davanti al banco con la piccola mutanda arancione intorno al sesso. 
"Te, non sapete cosa sono soldi? Selvaggio allora? l'ha apostrofato come per svegliarlo uno dei commessi abituato a sbrogliarsela e ben allenato senza dubbio a queste transazioni perentorie. Tu non parlare fransé di'? Tu essere ancora gorilla eh?... Tu non parlare insomma eh? Kus Kus? Mabillia? Tu coglione? Bushman! Coglione completo!"
Ma restava davanti a noi il selvaggio la mano rinchiusa sui suoi pezzi. Sarebbe scappato se avesse avuto il coraggio, ma non osava. 
"Tu comperato allora cosa con tua grana?" intervenno opportunamente il proprietario. Ho mai visto uno stronzo come lui a ogni modo da un sacco di tempo, volle specificare. Deve venire da lontano quello! Cos'è che vuoi? Dammi la tua grana!"
S'è ripreso i soldi d'autorità e al posto delle monete gli ha stropicciato nell'incavo della mano un grande fazzoletto verdissimo che era andato abilmente a prelevare in un anfratto del banco.
Il padre negro esitava ad andarsene col fazzoletto. Il proprietario fece allora anche di meglio. Conosceva davvero tutti i trucchi del commercio imperialista. Agitando davanti agli occhi di uno dei piccoli neri bambini quel gran pezzo di cotonina verde: "Lo trovi mica bello di' gorbetto? Ne ha visti molti così di' piccolina bella, dimmi carognetta, dimmi salsicciotto, di fazzoletti?" E glielo ha annodato al collo d'autorità, tanto per vestirla. 
La famiglia selvaggia contemplava adesso il piccolo adorno di questa gran cosa di cotonina verde... C'era più niente da fare perché il fazzoletto era già entrato in famiglia. Non restava che accettare, prendere e andare.
Si misero dunque tutti a rinculare lentamente, superarono la porta, e nel momento in cui padre si girava, da ultimo, per dire qualcosa, il commesso più scaltrito che aveva le scarpe lo stimolò, il padre, con un gran calcio in pieno culo.
Tutta la piccola tribù, raggruppata, silenziosa, dall'altro lato di avenue Faidherbe, sotto le magnolie, ci guardava finire l'aperitivo. Si sarebbe detto che cercavano di capire quel che gli era appena capitato.

mercoledì 13 aprile 2011

Foucault, la barba incolta e i consigli di stile di Silvio Berlusconi

Quache giorno fa, Silvio Berlusconi (nella sua veste di Tycoon, di archetipo dell'uomo di successo)  ha intrattenuto una platea di "giovani talenti" con una piccola ma significativa lezione di stile.

Berlusconi, secondo Il Giornale, ha dispensato consigli tricologici ad alcuni degli studenti con calvizie incipiente, ha chiarito che su un abito blu non si mettono mai le scarpe marroni, che la cravatta «non deve spuntare da sotto la giac­ca» di cui «bisogna abbottona­re solo i primi due bottoni» ,e ha spiegato di non gradire gli uomi­ni con la barba, perché «na­sconde il volto, come se si aves­se una malformazione o si vo­lesse celare qualcosa»

Il potere non è altro che la possibilità di influenzare gli altri, meglio ancora se in maniera dissimulata o apparentemente naturale. La capacità di controllare il corpo, cioè di imporre i canoni estetici modificando il modo in cui le persone valutano e percepiscono gli altri e loro stessi, è una delle ultime barriere, uno degli indicatori attraverso i quali possiamo capire quanto (fino a dove) un potere è padrone dei suoi sottoposti

Queste mode imposte dall'alto non sono altro che il braccio armato di un potere così sconfinato ("egemonico") da riuscire a disciplinare addirittura il numero di bottoni della giacca che debbono essere allacciati. E' per questo che, nel tempo dell'inganno universale, anche tenere il bottone slacciato è un atto rivoluzionario.

martedì 12 aprile 2011

La musica come cultura popolare haitiana e la banalità della democrazia

Foreign Policy dedica un pezzo (The Bad Boy Makes Good) al significato della musica come forma di cultura popolare ad Haiti. Il pretesto è l'elezione a presidente di Haiti, uno dei paesi più disagiati e tormentati del pianeta, di Michelle Martelly, icona un tempo trasgressiva della musica popolare haitiana ed oggi volto nuovo (ma non nuovissimo né sprovveduto) della politica haitiana. 

L'analisi, che mette in luce l'importanza della musica (come spazio di aggregazione, come sottofondo onnipresente e soprattutto come principale forma di formazione, trasmissione, socializzazione, elaborazione e comunicazione della conoscenza e del pensiero in una società in buona parte analfabeta) nella società haitiana, sembra d'altro canto metter in evidenza le debolezze e le criticità della democrazia. Il destino di Haiti, paese pieno di problemi in cui l'età media è 21 anni, nelle mani di una pop star famosa (oltre che per aver gestito i night club preferiti dai gerarchi del vecchio esercito haitiano, celebre per le violazioni dei diritti umani) per calarsi i calzoni durante le performance? (Martelly come Beppe Grillo?)

Martelly (qui un'intervista per il Miami Herald), che ha vinto il ballottaggio con circa i due terzi dei voti, deve il successo soprattutto all'entusiasmo dei giovani, al ruolo di outsider ed alla sconfinata popolarità del Martelly cantante. Come raccontato dal MinnPost,
Martelly seems an improbable savior. Just a decade ago, he was donning skirts and wigs, cursing, and drinking like a sailor while performing his flamboyant act. “When he first declared himself a candidate, people didn’t take him seriously because he was the guy who dropped his pants on stage,” says Robert Fatton, a Haitian-American professor at the University of Virginia. “His persona, which should have been a handicap, became a plus. It was really a very clever campaign.”Instead of turning his back on his flamboyant past, Martelly used pieces of it to motivate the youth vote and to position himself as a political outsider. Martelly was able to reinvent his image thanks, in part, to the people he surrounded himself with, says University of Miami professor and former Haitian journalist Yves Colon. “He took the advice of a lot of very smart people and that was important,” Professor Colon says. Martelly hired Madrid-based Ostos & Sola, a consultancy that played an important role in the election of Mexico’s Felipe Calderón. Martelly’s public point man at Ostos & Sola helped run the John McCain’s 2008 presidential campaign. They positioned him as the candidate of change. And “Martelly tapped into a very strong desire on the part of the Haitian people who were looking for hope in a candidate, someone who was not a professional politician,” Colon says. “He doesn’t have any support in parliament. Not in the senate or in the lower house,” he says. “And he does not have any experience managing anything but a band. Let’s hope that he again surrounds himself with smart people.”
Bel paradosso: due tornate per lasciare il destino di una nazione nelle mani di un Pierino e delle ipotetiche e sconosciute (ma sicuramente torbide) "smart people" che lo hanno costruito.

lunedì 11 aprile 2011

L'epica lotta per il controllo del telecomando

Giornalettismo (si occupano anche di "notizie curiose"? E le mettono pure nella sezione "Esteri"?) riporta una storia accaduta a Glasgow dove una donna avrebbe cercato di strangolare il compagno colpevole di monopolizzare il telecomando della tv di casa ("Se non mi dai il telecomando ti strangolo").

Giornalettismo parla, a riguardo, di "uno dei più futili motivi possibili". Eppure, il telecomando è uno dei più importanti indicatori che ci permettono di tracciarei rapporti di forza e le distribuzioni (asimmetriche) di spazi e funzioni che caratterizzano, al di là di ogni visione idealizzata, la famiglia.

Secondo una ricerca (commissionata da un'azienda che commercializza telecomandi), "il 63% delle famiglie in Europa descrive l'esperienza del telecomando come una democrazia in cui chiunque dovrebbe esprimere il proprio parere sui programmi da guardare. Tuttavia, poiché spesso la democrazia non si esprime in maniera perfetta, il 72% degli intervistati ammette di aver discusso o litigato per il telecomando,  il 44% delle persone afferma che tra le mura domestiche è il capofamiglia a detenere il controllo sul telecomando e il 12% dice che nella propria abitazione vige un vero e proprio stato di “dittatura” in cui una sola persona decide cosa guardare monopolizzando il telecomando". Percentuali - tra l'altro - pesantemente sottostimate, vista la distanza che intercorre tra il dire e il fare (problema della desiderabilità sociale).

Ecco quindi che il gesto della signora Angela Jones assume il significato di atto estremo e disperato di ribellione alla sottomissione. E nelle nostre case?

giovedì 7 aprile 2011

Più tedeschi in Turchia che turchi in Germania

Mentre in Germania si ritorna a parlare di fallimento del multiculturalismo e di questione turca, il numero di turco-tedeschi che dalla Germania si trasferisce in Turchia supera il numero di nuovi immigrati turchi in GermaniaEast Side Report dedica un bell'articolo (Berlino-Istanbul sola andata) a questo fenomeno solo apparentemente paradossale.

Tra i giovani di origine turca nati in Germania che si trasferiscono in Turchia, una parte consistente è costituita da giovani con un elevato livello di istruzione. Stufi della retorica anti-immigrati e delle discriminazioni subite anche in ambito lavorativo, questi giovani turco-tedeschi vedono nella Turchia - paese dinamico, con un'economia in grande crescita e con un ruolo e con un prestigio politico sempre più rilevante - una nuova frontiera, uno spazio di opportunità in cui esprimere appieno le proprie propensioni ed in cui primeggiare. Tutto ciò costituisce per la Germania un problema: una sorta di nuova fuga dei cervelli che priva la Germania di talenti ma anche, banalmente, di giovani contribuenti su cui il welfare tedesco ha investito per anni per ritrovarsi poi con un pungo di mosche. 

I flussi di persone tra Germania e Turchia (e viceversa) non si limitano certo a questi cervelli in fuga. Dalle campagne turche molti giovani continuano a cercare fortuna in Germania, così come molti giovani turco-tedeschi non istruiti scelgono di tornare nella dinamica Turchia - magari semplicemente perché perdono il lavoro. A tutto ciò dobbiamo poi aggiungere i flussi di turisti, i turco-tedeschi ormai in pensione che tornano nella patria di origine, e tutti coloro che consolidano le relazioni commerciali tra i due paesi. In ogni caso, i flussi sono sempre meno unidirezionali e le relazioni sono sempre più simmetriche; non ci resta che prenderne nota.

mercoledì 6 aprile 2011

Berlusconi sdogana il termine politically correct "migranti". Festeggiamo?

Gennaro Carotenuto si chiede se la diffusione del termine migrante (al posto dei peggio connotati "immigrato" e "extracomunitario") nel linguaggio pubblico, media e politici di centro destra  compresi, non possa rappresentare una prima vittoria per tutti coloro che sostengono i diritti dei migranti (o degli immigrati).

"Sentire perfino Silvio Berlusconi, ma anche i grandi giornali e telegiornali moderati, usare oramai diffusamente il termine “migranti”, fino a ieri bandito, è di grande soddisfazione" scrive Carotenuto. "Fino a ieri facevano a gara a usare termini più o meno sprezzanti se non apertamente razzisti per definirli. Oggi si piegano e accettano di far diventare di uso comune un termine neutro che negli ultimi anni ha rappresentato l’accezione politicamente corretta (se non proprio democratica o di sinistra) del fenomeno".

La mia personale e ininfluente risposta è: no. Certo nel centro-destra stiamo assistendo ad un dibattito tra chi accetta di adottare in parte l'immaginario catto-comunista pietista del profugo in quanto inerme di cui abbiamo il dovere di prendersi carico, e chi accentua la dimensione della clandestinità in quanto violazione e pericolo (evocando risposte repressive e restrittive): l'uso del termine "delicato" migrante rientra nel primo frame. Ma allo stesso tempo non possiamo dimenticare che l'atteggiamento sostanziale dell'establishment è sempre e comunque restrittivo, emergenziale, allarmistico, magari parzialmente assistenziale ma mai pientamente rispettoso e umanitario perché orientato alle vere esigenze del migrante e dell'altro in quanto di pari valore (sia esso approdato via mare o in altro modo).

Il fatto che questo establishment utilizzi nel proprio discorso il termine politically correct migrante, non fa in altre parole che privare della connotazione "neutra" la parola. Il Berlusconi che parla di migranti ammette l'esistenza di una gradazione tra il clandestino da reprimere e il profugo-migrante da pulire e rifocillare, ma non denota un cambiamento sostanziale. Anzi: fa suo parte del linguaggio e dell'immaginario dei movimenti pro diritti dei migranti depotenziandolo, inquinandolo, colonizzandolo. Berlusconi, parlando di migranti, non fa che rendere questo termine inservibile. Ma forse è meglio così: meglio un anti-razzismo sostanziale che un anti-razzismo puramente formale.

lunedì 4 aprile 2011

Né profughi né clandestini. Perchè sbagliamo tutto coi ragazzi di Lampedusa

C'è chi definisce i migranti giunti a Lampedusa profughi, c'è chi li chiama clandestini, e c'è chi dice che ci sono sia profughi che clandestini derivando distinzioni sostanziali tra gli uni e gli altri. Ma quale immaginario nutre (e quali approcci al problema sostiene), chi parla di profughi? E chi parla di clandestini? Qualcuno si sta sbagliando? E cosa sono, davvero, le persone che stanno sbarcando in questi giorni a Lampedusa?

Profughi

Chi parla di profughi tende a rappresentare i migranti come oggetti passivi ed inermi, malati, denutriti e senza scarpe: pulcini bagnati fuggiti - dopo aver perso tutto - da una situazione di conflitto (e finiti infine nelle grinfie del racket degli scafisti). I profughi sono un peso, una seccatura, una piaga, un fardello, uno tsunami umano; tuttavia è nostro dovere umanitario, legale e/o morale, accoglierli, pulirli, nutrirli, prenderci cura di loro ("siamo un Paese civile e cattolico"). Livia Turco propone per i profughi una rete di case famiglia gestite da associazioni di volontariato, mentre la destra chiama in causa l'Europa affinchè condivida con noi questo costoso atto di bontà necessaria. Ovviamente distinguendo la crusca dal grano buono ("sì ai profughi, no ai clandestini") se non altro per evitare che i soliti furbetti opportunisti (d'altra parte siamo tutti mediterranei) se ne approfittino per villeggiare e mangiare (e fumare) a sbafo.

Clandestini

Se i profughi sono vittime, gli opportunisti e i malintenzionati prendono il nome di clandestini. "Se avevi 1.500 euro da spendere per il gommone perché non te ne sei rimasto direttamente a casa?" I clandestini si confondono con i profughi, si spacciano per libici, approfittano dell'assenza di controlli sulle coste tunisine, sfruttano le maglie del diritto internazionale ed il nostro spirito umanitario per sbarcare sul suolo italiano. Tutto ciò costituisce reato, ma è anche il sintomo inconfutabile di intenzioni poco limpide. E l'arroganza del clandestino non si ferma certo qui: i clandestini pretendono invece di restare inermi ad aspettare, protestano e tentano addirittura di scappare. Chi non è giunto in Italia per estendere la rete del terrorismo islamico globale, e chi non si trasforma in manovalanza per la criminalità organizzata, fugge nelle metropoli del nord a rimpolpare le file dei clandestini/delinquenza locale

Né profughi né clandestini

Gli immigrati che stanno sbarcando attualmente a Lampedusa, tuttavia, non sono né "profughi" inermi e passivi né clandestini malintenzionati. Essi sono semplicemente, nella stragrande maggioranza dei casi, giovani che si muovono alla ricerca di un futuro migliore, alla ricerca di successo e fortuna; persone che ci provano, che vogliono raggiungere un fratello o un amico, che cercano occasioni, che inseguono un sogno. Essi non chiedono accoglienza, e non vogliono essere rinchiusi (in una tendopoli, in una caserma o in una casa famiglia): essi vogliono arrivare nelle grandi metropoli europee, dove hanno contatti e spesso lavori informali che li attendono, per provare a costruirsi qui un segmento di vita. 

Sarebbe sufficiente allentare la politica dei visti, stabilendo flussi in entrata credibili o meglio ancora concedendo dei permessi temporanei che assecondino il naturale flusso e deflusso delle persone funzionale - tra le altre cose - all'economia. Ma visto che tutte le porte legali sono a loro precluse, a questi ragazzi non resta altro che provare ad approfittare - come ogni estate - del mare calmo e dell'assenza di controlli sulle coste nordafricane. 

Non che questa "avventura" sia piacevole per loro: ne sono già morti a decine e a centinaia in mare, molti languono (e languiranno) nei lager del sud Italia, molti altri sono stati acchiappati (ma niente paura, ragazzi: molto probabilmente verrete rilasciati col foglio di via). Ma la grande determinazione di questi ragazzi, avventurieri intraprendenti e ambiziosi che dovrebbero costituire un esempio per tutti i nostri pavidi e i nostri bamboccioni, non si ferma tuttavia nemmeno davanti a queste privazioni. I rischi enormi che corrono non sono altro che un sintomo del senso di urgenza e dell'intraprendenza che li muove; intraprendenza di cui abbiamo bisogno, e che costituisce per l'Europa ripiegata ed in declino una delle principali risorse di cui approfittare.