Valeria Mazza, sul Corriere, dedica una lunga riflessione ragionata al cosiddetto "poorism", traducibile come "turismo della povertà", cioè alla tendenza - diffusa fra i viaggiatori indipendenti ma sempre più spesso anche tra i viaggiatori organizzati - a includere negli itinerari di viaggio - oltre alle destinazioni tipicamente turistiche - anche la visita più o meno improvvisata a ghetti, a slums, a favelas o in generale a zone degradate e "off the beaten tracks", nel desiderio - almeno stando alle razionalizzazioni di partecipanti e promotori - di "toccare con mano" le condizioni di vita delle persone comuni o addirittura di testimoniare vicinanza, interesse, magari di dare una mano (Sono un turista. Visito o no la favela?).
Il "poorism" è, indubbiamente, una pratica sospesa tra il voyerismo e il "turismo responsabile". Da una parte è innegabile che alla base di questo atteggiamento - che personalmente pratico da anni - vi sia una forte componente di curiosità e di ricerca (integralmente egoistica) del proprio limite, della particolarità, dell'avventura, dell'eclatante, di quei luoghi misteriosi e spaventevoli che fanno parte dell'immaginario globale per poter dire - soltanto a noi stessi o agli altri, che rimarranno a bocca aperta- di esserci stati. Dall'altra parte, però, c'è spesso forte anche il desiderio di conoscere, di non distogliere lo sguardo, di capire, di esperire - seppur solo per una breve finestra della propria parabola - per lasciarsi "contaminare". Per non parlare del desiderio di testimoniare - per quanto possa essere assurdo - una propria vicinanza e forse - altra assurdità - anche della presunzione di poter addirittura essere d'aiuto (e quì s'innesta quel business un po' radical chic ma fiorente e meritorio del turismo sostenibile) - per quanto, a pensarci meglio, tutto ciò può apparire una semplice giustificazione, una fuga da sensi di colpa (cosmici) un po' grottesca.
Personalmente, credo che nel poorism (almeno in quello budget e improvvisato del "viaggiatore indipendente") convivano entrambi gli aspetti, e credo che questo non sia un male.
Non c'è nulla di male a frequentare un treno di terza classe per pura curiosità, per sfida, per interagire - anche silenziosamente e "futilmente" - con l'altro allo scopo di arricchire sé stessi (e magari, incidentalmente, anche l'altro) - a patto, ovviamente, che lo si faccia con tatto, laicamente (non stiamo salvando il mondo, non stiamo comprendendo a fondo niente), con un minimo di coerenza e soprattutto con la massima e più rispettosa discrezione.