Niente cittadinanza ai migranti, «perchè non la richiedono». Niente politiche serie di inclusione sociale, «perchè la maggior parte di loro prevede di tornare a casa». Ma non solo: selezioni all'ingresso sulla base di presunte «affinità culturali», e «riaffermazione» di una "nostra" non meglio definita identità culturale perchè «l'immigrazione pone a rischio le società che non si sanno difendere».
E' questo, in sintesi, il «Modello Italiano» per la gestione dell'immigrazione e per l'integrazione, verso cui il ministero italiano degli Interni (sic!) si sta esplicitamente muovendo.
E se fino ad oggi si poteva lamentare il fatto che l'Italia, al contrario dei grandi paesi di immigrazione, non avesse un modello su cui basare politiche coerenti di gestione dell'immigrazione e di inclusione dei migranti, oggi il problema è un altro: l'Italia si sta dando un modello, ma si tratta di un modello assolutamente demenziale.
Da anni ci si chiede quale sia il Modello Italiano per la gestione dell'immigrazione e dell'integrazione. Tutti i grandi paesi ne hanno uno: i modelli assimilazionisti di Francia e Stati Uniti, il modello multiculturalista di Gran Bretagna, Olanda e Canada, il modello del Lavoratore Ospite della Germania, tutti in parte inefficaci ed al centro di recenti revisioni. Essendo un paese di immigrazione recente, si diceva, l'Italia potrà cogliere il meglio dell'esperienza di questi paesi per produrre un «Modello italiano» in grado di ridurre la conflittualità e di aumentare i benefici per tutti.
E' questo, in sintesi, il «Modello Italiano» per la gestione dell'immigrazione e per l'integrazione, verso cui il ministero italiano degli Interni (sic!) si sta esplicitamente muovendo.
E se fino ad oggi si poteva lamentare il fatto che l'Italia, al contrario dei grandi paesi di immigrazione, non avesse un modello su cui basare politiche coerenti di gestione dell'immigrazione e di inclusione dei migranti, oggi il problema è un altro: l'Italia si sta dando un modello, ma si tratta di un modello assolutamente demenziale.
Da anni ci si chiede quale sia il Modello Italiano per la gestione dell'immigrazione e dell'integrazione. Tutti i grandi paesi ne hanno uno: i modelli assimilazionisti di Francia e Stati Uniti, il modello multiculturalista di Gran Bretagna, Olanda e Canada, il modello del Lavoratore Ospite della Germania, tutti in parte inefficaci ed al centro di recenti revisioni. Essendo un paese di immigrazione recente, si diceva, l'Italia potrà cogliere il meglio dell'esperienza di questi paesi per produrre un «Modello italiano» in grado di ridurre la conflittualità e di aumentare i benefici per tutti.
Nel frattempo, però, gli anni sono passati. Oggi l'Italia non è più un paese di recente immigrazione, ma non ha ancora una politica migratoria definita. Ed in assenza di un qualsiasi modello e di un qualsiasi progetto coerente, è inevitabile che il clima non sia buono, che i provvedimenti presi siano completamente inefficaci, che gli opinion leaders brancolino nel buio. Il costo di questa manifesta incapacità progettuale, fino ad oggi ricaduto quasi completamente sulle spalle dei migranti, penzola sempre di più anche sopra le teste degli italiani; e se le cose non vanno poi così male è quasi unicamente perchè, per ora, tutto si è in qualche modo aggiustato da sole nonostante la Bossi-Fini (2002) e grazie all'atteggiamento sconfinatamente docile e dimesso tenuto fino ad oggi dai migranti.
Poi, ecco arrivare il sottosegretario Alfredo Mantovano ed il suo risibile "Modello Italiano".
Mi riferisco in particolare ad un intervento di Alfredo Mantovano (comunicato riassuntivo esaustivo e versione integrale) sottosegretario agli Interni (ed è significativo il fatto che l'immigrazione venga trattata dal ministero degli Interni al pari del Terrorismo e della Mafia), al convegno «Immigrazione e identità nazionale. Verso un modello italiano», tenutosi l'11 gennaio 2010 a Roma.
Leggiamo il comunicato riassuntivo.
«L’Italia - ha si legge nel discorso firmato Alfredo Mantovano, d'ora in poi in corsivo - è una Nazione che, rispetto ad altri partner europei, Francia e Regno Unito in testa, affronta la questione immigrazione da un tempo relativamente recente: appena vent’anni. Per questo, dopo aver superato una serie di emergenze (da ultima, quella degli sbarchi), oggi essa è in condizione di giocare la partita dell’integrazione puntando alla elaborazione di un proprio “modello”, che faccia tesoro delle esperienze degli altri Paesi, e che tenga conto della propria identità».
L'introduzione non fa una piega: peccato che vent'anni, in questo campo, siano tutt'altro che pochi: dire che fino ad ora ci siamo limitati a tamponare le "emergenze", quantitativamente irrilevanti nell'economia del flussi migratori, non giustifica certo una tale impreparazione. Gli oltre 4 milioni di migranti, di cui quasi 1 milione di minori, sistematicamente ignorati a discapito dell'emergenza sbarchi sono una svista irrilevante?
Chi oggi viene in Europa da aree meno sviluppate pensa di stabilirsi mediamente solo in un terzo dei casi: l’altro 70% si pone l’obiettivo di mettere da parte dei risparmi, di acquisire mestieri e/o professionalità, di far frequentare ai figli le nostre scuole, quindi di rientrare dopo un numero apprezzabile di anni nel Paese d’origine per far fruttare i risparmi e le conoscenze apprese. A che cosa serve a costoro la cittadinanza? Chi di loro realmente la chiede o la desidera?
L'esperienza insegna che la quasi totalità dei migranti afferma in partenza di ambire a tornare in patria ma che, nei fatti, la quasi totalità dei migranti (escluse le badanti e chi arriva nel nostro paese in età già avanzata) rimane nel paese di immigrazione, dove si costruisce una routine ed un percorso di vita irreversibile e dove matura un'estraneità per il contesto di partenza, per tutta la vita. Un classico punto di non ritorno è la paternità: una volta costituita una famiglia, per ricongiungimento o direttamente in Italia, nessuno è disposto seriamente a tornare alle condizioni precedenti o a trapiantare i propri figli, cresciuti qui e totalmente estranei al contesto di partenza, nel paese di origine. Nessuno degli 800.000 figli di stranieri che vivono in Italia tornerà mai in una patria con la quale non ha nulla a che fare. I tedeschi, per liberarsi dei turchi, negli anni '80 hanno provato addirittura a pagarli per rispedirli in patria; ma la stragrande maggioranza ha rifiutato. Inoltre, se anche chi è in Italia tornerà un giorno "a casa", lascerà un posto vacante nel sistema produttivo che dovrà essere colmato da un nuovo immigrato (nel qual caso il processo di "integrazione" dovrà essere ricominciato daccapo).
E quali "conoscenze apprese" dovrebbero far fruttare i migranti, i tanti diplomati o laureati che in Italia lavorano come manovali, come raccoglitori di pomodori o come kebabbari?
Infine: chi chiede e desidera la cittadinanza? Chiediamolo a loro: per ottenerla è necessaria una richiesta, e chi non sarà interessato si eviterà ben volentieri l'ennesima umiliante pratica burocratica. Attribuirli la cittadinanza servirebbe solo a farli sentire almeno formalmente un pò più coinvolti, come insegna il sistema americano.
«In tal senso va perseguita – e può costituire un pilastro del “modello italiano” – una politica di reinserimento dei lavoratori immigrati nei paesi di origine, che punti a garantire nei fatti l’equilibrio tra la soddisfazione in modo flessibile del fabbisogno di mano d’opera dell’economia italiana e la necessità di nuove opportunità di lavoro dei Paesi di provenienza. Va costruita quella che potrebbe definirsi una “immigrazione rotazionale”, basandola su un doppio binario: percorsi di inserimento non virtuale di chi viene in Italia e in Europa e percorsi di rientro incentivato nei luoghi di provenienza, tesi a collocare nel modo più adeguato e soddisfacente chi ha maturato competenze e capacità di contribuire allo sviluppo del proprio Paese. Ciò richiede in modo decisivo il rafforzamento della cooperazione, indirizzando le scelte sia delle istituzioni comunitarie, sia degli enti territoriali italiani, sia – per quanto si lascino coinvolgere – delle istituzioni degli Stati di provenienza».
Riecco la favola dell'«immigrazione rotazionale»: una soluzione che può piacere, ma che nei fatti si è rivelata irrealizzabile. C'hanno già provato tutti, ma nessuno c'è riuscito: questa strategia può andare bene per i raccoglitori stagionali (anche se è più efficiente, come visto, semplicemente creare una transumanza di schiavi), ma non per gli operai, per i muratori, per i pizzaioli, per le badanti, cioè per tutte quelle categorie di lavoratori che gli imprenditori non possono e non vogliono rotare, se non altro perchè sarebbe inefficace e "rischioso". E quello che i migranti chiedono è, spesso, semplicemente di potersi stabilizzare: domanda ed offerta si incontrano, e l'unico che non se ne accorge è Mantovano.
«Governo dell’immigrazione significa però, oltre che collegare la disciplina dei flussi a procedure meno burocratizzate, non agganciarsi esclusivamente agli indici del mercato del lavoro. Quello su cui è necessario riprendere una riflessione non sommaria né demonizzante è tentare di orientare gli arrivi nei differenti Paesi europei sulla base di consonanze culturali in senso lato, proprio per permettere la migliore integrazione: non si tratta di promuovere impossibili preferenze etniche, ma di essere consapevoli che la convivenza riesce meglio quanti più numerosi sono gli elementi che si hanno in comune. Una ipotesi del genere, lungi dal possedere connotazioni di discriminazione razziale, è l’esito del buon senso: per ragioni ovvie, un somalo ha una facilità di integrazione in Italia certamente superiore rispetto a un maghrebino, mentre in Francia chi proviene dalla Tunisia trova un terreno più favorevole rispetto a chi proviene dallo Sri Lanka».
Eccole, le «consonanze culturali» per le quali il musulmano sarebbe meno integrabile del cristiano. O per le quali il somalo, musulmano originario di un paese governato di fatto da un'istituzione canaglia chiamata Corti Islamiche, si integrerebbe meglio in Italia in virtù della passata dominazione coloniale italiana ("faccetta nera" e tutto il resto).
Una politica dettata dal "buon senso", che però non funziona: filippini, cinesi e sudamericani (etnie tra le quali si registra la più alta concentrazione di gang giovanili e la più bassa concentrazione di matrimoni misti; e poi diciamocelo chiaro: chi di noi non ha per amico un socievole cinese iper-integrato?), solo per fare tre esempi, non sono meglio integrati dei tanti africani o nordafricani. E che dire dei migranti italiani nei cristiani Stati Uniti di fine '800? E poi: come dimenticare che le rivendicazioni e le ribellioni dei migranti sono tutt'altro che religiosamente motivate (si pensi alle banlieu) anche perchè gli individui, soprattutto la gran parte dei migranti e delle seconde generazioni, hanno identità fluide e multidimensionali e quindi non sono semplicemente etichettabili come piacerebbe all'ultras dello stato mono-etnico ed etico Alfredo Mantovano?
«In quest’ottica, non dobbiamo temere di riaffermare la nostra identità culturale: anzi, dobbiamo convincerci che l’immigrazione pone a rischio le società che non riescono a mantenere in modo chiaro e deciso la propria identità»
Certo, la nostra "identità": il presepio, il crocifisso, le veline, il nostro bel folklore nostalgico e vuoto. Sarà questo a salvarci, onorevole Mantovano. Non i principi costituzionali, le politiche di inclusione o le capacità dei nostri studiosi mai ascoltati.
Il discorso di Mantovano sembra testimoniare i desideri, le fantasie e le paranoie di una classe dirigente incapace e intrinsecamente xenofoba (nell'accezione reale negativa, naturalmente), piuttosto che una reale conoscenza della realtà e dei processi in atto. Nulla di nuovo, naturalmente: il problema vero sarà quello di integrare loro nel futuro multiculturale.
Solo ricordiamocene quando si tratterà di chiamare in causa, tutti insieme, i responsabili.
un cane che si morde la coda, queste leggi;
RispondiEliminaad Annozero (ho resistito fino alla fine solo per Vauro) Roberto Cota, di fronte ad una donna di origine musulmana che stava dicendo che da 24 anni sta cercando di ottenere la cittadinanza italiana (dall'86 ha rifatto domanda nel 98 e ora deve ripresentarla - è imprenditrice, paga i contributi allo Stato e ai suoi dipendenti, suo marito e i loro figli sono in regola), dicevo: lui le ha risposto che la cittadinanza in Italia si può avere dopo 10 anni e che lei evidentemente non l'ha chiesta...!