La fiera dell'artigianato di Rho (nel 2009 dal 5 al 13 dicembre) è ben più di una semplice occasione per fare incetta di chincaglieria etnica, spesso estremamente accattivante, o per perdersi per qualche ora tra le suggestioni un pò grossolane ma stuzzicanti offerte dalle centinaia di espositori provenienti (teoricamente) da ogni angolo del pianeta. Una spedizione attraverso le luci e le ombre di questo "villaggio globale", lucidamente e ordinatamente accattivante, sorprendente ma non troppo, è infatti il modo più semplice e più lampante per osservare i modi in cui le rappresentazioni del mondo vengono inventate, commercializzate e reiterate nell'epoca della passione popolare per il folklore, per il "viaggio" e per lo stile etnico.
La Fiera dell'artigianato di Rho Milano è un'esposizione e un mercato di prodotti di "artigianato" provenienti da tutto il mondo. Gli spazi della fiera sono stati infatti divisi in quattro blocchi, che occupano altrettanti padiglioni doppi: due dedicati all'Italia (settentrionale e centro-meridionale), uno all'Europa e uno al Resto del Mondo. Lo scopo della fiera sarebbe quello di offrire uno spaccato dell'artigianato mondiale, assecondando l'interesse straordinario e crescente del pubblico per ciò che è esotico: dagli oggetti d'arte ai soprammobili, dai tappeti ai mobili etnici, dalle essenze ai capi di abbigliamento e agli accessori. Nei fatti, tuttavia, la fiera non fa che dimostrare come l'etnico a cui siamo abituati non abbia nulla di realmente collegato con la tradizione dei popoli e dei luoghi lontani, essendo al 100% un'invenzione commerciale.
La visita inizia con gli stand dedicati all'Italia Settentrionale. A questa latitudine "artigianato" sembra significare utilità e di qualità: il padiglione ospita, infatti, i resti del "made in Italy povero", cioè di quel made in Italy un pò alla buona che ha poco a che vedere con le grandi griffe, con le pubblicità milionarie e con le grandi spedizioni all'estero di Confindustria.
Questo genere di artigianato, tipico del nord-est e da decenni in grandi difficoltà economiche, tenta di sopravvivere alla sfida della globalizzazione proponendo una sorta di made in Italy concreto e pragmatico che vuole unire la qualità superiore, vera o presunta, al prezzo basso garantito dalla vendita diretta. La retorica del "Made in Italy" come mito estetico è quindi soppiantata dal culto del rapporto qualità-prezzo dove la qualità è una qualità puramente materiale che ha a che fare con la robustezza, con l'usabilità e con un pò di nostalgia per l'Italia delle piccole fabbrichette, degli empori e dei mercati spazzati dall'irruzione dei prodotti cinesi. Non mancano gli imbonitori da fiera, che con le loro improbabili invenzioni danno un pò di colore, nè i solidi artigiani (mobili, dentiere, ringhiere) spesso un pò selvatici nell'aspetto, ma in qualche raro caso con notevoli capacità artistiche.
Il settore dell'enogastronomico, infine, è anch'esso dedicato ad un mix di concretezza e qualità casereccia (pane con salame, pane con prosciutto), anche se si intravedono le prime reinvenzioni legate ad un'enogastronomia che non ha ormai quasi nulla a che fare con la quotidianità ma che qualcuno sta cercando di riesumare e riadattare, creando un nuovo genere di lusso e di "saper vivere" legato alle radici materiali presunte: è il caso della risotteria e della "polenteria comasca".
Il secondo stand visitato (manca il tempo per visitare il padiglione dedicato al centro Italia ed al meridione) è quello dedicato all'Europa (ma come: l'Italia non è in Europa?). Questo padiglione è forse il più vario ed il più interessante, perchè unisce gli stereotipi più consolidati e gli stereotipi di nuova formazione con la creatività individuale.
Una parte degli stand è riconducibile agli stereotipi commercializzati più antichi e maturi: saponi francesi, matrioske e immagini di Lenin russe, ma anche vini portoghesi e wurstel con crauti. Questi stand offrono prodotti soprattutto da regalo: se i prodotti italiani hanno ben poca aurea e si prestano ai regali "utili", questi prodotti sono più vicini all'idea di futile ed attirano perchè benchè conosciuti da tutti non sono così comuni, o perchè al di fuori della fiera sono più costosi, o perchè hanno un fascino extra dovuto al cinema o semplicemente ai ricordi (di vecchi viaggi, di vecchi film) a cui essi sono associati in molti italiani. Tutto ciò è il risultato di una tradizione sedimentatasi negli anni: sono secoli che i saponi francesi si sono costruiti una certa fama, ed anche se è difficile immaginare che i francesi siano veramente interessati ai saponi con essenze improbabili o alle croste di sapone di Marsiglia grezzo, in Francia sopravvive una vera e propria industria da saponette per turisti che vengono, grazie a questa e ad altre fiere, messi sotto il naso anche dei più pigri.
Lo stesso vale per il settore dell'enogastronomico: anche in questo caso i prodotti venduti hanno spesso poco a che vedere con la dieta degli europei di oggi, ma anche con la vera dieta degli europei comuni di ieri: si tratta di finzioni, di estrapolazioni e di riadattamenti, che però gli italiani riconoscono, attendono e sono disposti a pagare proprio anche perchè così estranei alla presunta tradizione "nostra".
Una seconda categoria è costituita da quegli stand che hanno delle particolarità che li riconducono alle nazioni di provenienza, ma in maniera meno grossolana. Questa riconoscibilità è ambigua, e mostra l'avvento e la formazione di nuovi stereotipi che rispecchiano ancora, almeno in parte, il clima delle nazioni di appartenenza: una certa efficienza ambientalista e naturista nord europea, i residui dell'artigianato rurale (centrotavola, maglieria) dei paesi dell'est Europa. In altre parole, in assenza di aspettative e di desideri consolidati (gli italiani non impazziscono all'idea di acquistare oggetti dell'artigianato "tradizionale" ungherese, che non conoscono), questi artigiani stanno "inventando" l'artigianato tradizionale ungherese in parte cogliendo del materiale dalla realtà soprattutto passata del loro paese, in parte assecondando l'interesse del mercato globale per gli oggetti fatti a maglia (apprezzati perchè ricordano un pò i lavoretti delle nonne) o per l'efficienza ecologica.
Un terzo genere di stand è quello che, invece, si rifà ad uno stile maggiormente globale e non localizzabile: è il caso soprattutto degli orecchini e di tutti quegli accessori che si rifanno ad uno stile ormai ampiamente diffuso, che in parte viene percepito come "etnico" ma che in realtà non ha nemmeno la presunzione di avere una provenienza definita. Questo genere di creatività "cosmopolita" è il risultato più reale dei processi di globalizzazione, anche se lascia interdetti rifiutando quasiasi schematizzazione.
Infine, un quarto genere di stand è quello che da spazio alla creatività non "nazionale" ma individuale, proponendo prodotti legati all'estro di un signolo e slegati da ogni genere di stereotipo. Se una parte degli stand approfitta e reitera gli stereotipi e le aspettative dei visitatori, quindi, un'altra parte di espositori si allontana da questi stereotipi (o dai nuovi) proponendo prodotti originali e "senza patria".
Nel complesso lo stand dell'Europa si colloca a metà tra la pura utilità legata alle traduzioni produttive dello stand italiano e la pura futilità inventata dello stand dedicato al Resto del Mondo. Anche se le particolarità nazionali sono presenti, tanto che spesso la nazionalità degli stand è deducibile dai prodotti o dall'atmosfera, a questa "media distanza" spazi di creatività individuale sono ancora possibili.
Lo stand maggiormente controverso e paradossalmente ripetitivo è, invece, quello dedicato al Resto del Mondo. Da uno stand che dovrebbe rappresentare l'artigianato di oltre nove decimi del pianeta ci si potrebbe aspettare una varietà di molte volte superiore a quella mostrata dagli stand europei e italiani. Questo padiglione, al contrario, mostra in maniera lampante come l'artigianato etnico, anche in quella che dovrebbe essere la sua rappresentazione popolare più attenta (musei etnografici esclusi, naturalmente), non sia in realtà che una manciata di stereotipi confusi e ripetitivi sulla quale pochi individui astuti hanno costruito un grande business, con buona pace del vero "artigianato etnico". Di fatto anche se le nazioni sono diverse decine, è difficile distinguere ad esempio tra tutti gli stand africani che commercializzano suppellettili tribali e statuine di legno, o tra gli stand asiatici che vendono tessuti identici e chincaglieria presunta artigianale. Il ridicolo viene poi sfiorato nel caso di alcuni prodotti che compaiono, identici, negli stand che dovrebbero essere indicativi dell'artigianato di paesi distanti decine di migliaia di chilometri: kefiah colorate negli stand indiani e estremo-orientali, applicazioni di feltro negli stand bulgari ed indiani, katana e spade con espliciti richiami a Kill Bill e al Signore degli Anelli negli stand dell'intero continente asiatico (dal Viet Nam alla Cina).
Di fronte alla globalizzazione del gusto, l'artigianato "tradizionale" è un oggetto talmente fasullo che non può che appiattirsi e massificarsi. Il padiglione Resto del Mondo, infatti, è il segno evidente di come esista un gusto globale che sta assorbendo anche quegli stereotipi dei quali all'inizio si è nutrito. Lo stile etnico è, in altre parole, uno stile sempre più slegato dalle origini nazionali. Ciò non può che far riflettere su come l'argianato tradizionale sia (almeno quando diventa commerciale) sempre in parte fasullo, e su come esso sia sempre e comunque una costruzione sociale slegata dalla realtà e dalle radici che esso vorrebbe rappresentare ed esportare.
Intendiamoci: la Fiera è una gioia per gli occhi perchè accoglie tutti quegli oggetti futili che esteticamente affascinano, da secoli, proprio per la loro particolarità. Allo stesso tempo, però, l'osservatore attento non può non osservare come queste "particolarità" siano non solo trite e ritrite e frutto di stereotipi e pregiudizi, ma anche come esse siano completamente slegate dalla cultura e dalla realtà dei paesi lontani.
La Fiera è quindi un buon luogo dove andare a fare acquisti. Ma non crediate di aver conosciuto chissà quale cultura reale, perchè le culture reali presenti e passate sono ben diverse dalle invenzioni commerciali create ad uso e consumo dell'uomo bianco. Inutile dire, infine, che una rivalutazione di questi tratti esteriori non ci mette in pace con il razzismo e l'etnocentrismo con il quale consideriamo la sostanza delle genti lontane.
Pretendere di conoscere e simpatizzare cone le culture vistando la Fiera dell'Artigianato, d'altra parte, sarebbe come pretendere di apprendere la storia vera visitando Gardaland.
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