«Diametro non superiore ai 35 cm, bordo rialzato fra 1 e 2 cm, e nel condimento solo pomodori pelati san Marzano, mozzarella di bufala campana Doc, aglio, un filo d'olio, sale e foglie fresche di basilico».
Secondo la Commissione Europea solo un prodotto con queste caratteristiche, ottenuto mediante procedure codificate (di trattamento, di cottura, di conservazione), si potrà fregiare del titolo di “vera Pizza Doc”. Per politici e commentatori questa decisione suggella il riconoscimento dell'eccellenza della cultura italiana, e mette fine agli scempi commessi da tutti quei pizzaioli che, nei decenni, hanno spacciato per vera pizza prodotti "scadenti" insultando la cultura italiana e truffando gli ignari consumatori di tutto il mondo.
Tutto ciò è naturalmente folle. La "vera pizza", infatti, non esiste.
La volontà di istituire un marchio per "proteggere" la pizza Doc si basa sull'idea che esista una "vera Pizza", ottenibile secondo una ricetta standard, e che questa "vera Pizza" sia oggettivamente più buona tanto che chi spaccia come tale un prodotto diverso non solo truffa i propri clienti ma nuoce anche il buon nome della Pizza e, con essa, l'eredità culturale che essa rappresenta. Secondo questa idea, un prodotto fatto in maniera diversa (ad esempio farcito con altri ingredienti, dai funghi al montone) non è vera pizza: non può avere quella bontà assoluta e universale che solo la vera pizza ha, cioè è – implicitamente - di qualità e di gusto peggiore.
Nella realtà, però, non solo la pizza è il risultato di un processo di rielaborazione in continuo divenire al quale tutti hanno il diritto di partecipare: ogni pizza è a suo modo unica, e la pizza “buona” è semplicemente quella pizza che incontra il gusto soggettivo di chi la assapora. Il fatto che questo gusto sia influenzato spesso da processi di condizionamento e di suggestione che poco hanno a che fare con il semplice sapore, non toglie che ogni pizza, anche quella che a noi può sembrare più improponibile, possa essere per qualcun altro la più buona, e che questa convinzione abbia lo stesso valore di quella di qualsiasi gourmet a cinque stelle.
Anche se la pizza è un prodotto dinamico e in qualche modo artistico, ed il gusto un genere di giudizio assolutamente soggettivo e relativista, quindi, i burocrati di Bruxelles e l'establishment dell'enogastronomia nazionalpopolare si sono alleati per congelare la definizione di "vera Pizza".
Fa assolutamente pensare il fatto che l'establishment enogastronomico, cioè quell'insieme di snob gaudenti che si trastullano stabilendo per gli altri, con arroganza, ciò che è buono e vero, si stia prestando a un processo del genere. Poco gli importa, infatti, se questo genere di scelta si basa su criteri che non hanno nulla a che vedere con quanto ci viene propagandato quasi quotidianamente come grande cucina proprio da coloro che affermando di “saper mangiare”.
Cosa ha a che fare la pizza, cioè un alimento popolano, rustico e artistico, inventato da generazioni di massaie e di pizzaioli squattrinati sulla base delle disponibilità e del proprio gusto, con l'idea di privatizzazione che emerge dall'attribuzione di un brevetto, patente che può andare bene per un pezzo meccanico ma non certamente per un alimento né per un prodotto "culturale"? (Tra l’altro si può brevettare un modello di auto o di gonna, ma non l’auto o la gonna in quanto tali; nel caso della pizza poi ciò non vale anche perché essa è fluida e irriproducibile) E cosa ha a che fare con l'idea di standardizzazione che emerge dai regolamenti prodotti dai burocrati di Bruxelles, tremendamente simili al manuale di un qualsiasi fast food globale (il processo, in gergo, si chiama – pensate un po’ - "McDonaldizzazione"), con la cucina d'eccellenza, cioè con il talento del singolo pizzaiolo e con la sua capacità di creare e di adattare il prodotto ai gusti mutevoli dei clienti?
E qui cade la domanda fondamentale: cos’è, dunque, la pizza?
Pizza è tutto ciò che i consumatori definiscono, apprezzano e riconoscono come tale. Non esiste la Pizza con la “p” maiuscola, ma esistono diversi modi di interpretare la pizza; e non esiste una pizza migliore in assoluto: essendo il gusto individuale, la bontà della pizza è quindi prettamente soggettiva e la pizza più buona è quella che piace anche adattandosi al gusto ed alle esigenze di chi la prova ad assaggiare. Il fatto che a un italiano la pizza del tale pizzaiolo di Stoccolma o di Tokyo non piaccia non significa che quella pizza sia meno buona: semplicemente, è l’italiano a non essere abituato a questa versione. Forse per questo la pizza di Stoccolma è meno pizza della pizza del manuale di Bruxelles? Sarebbe come dire che solo la Sofia Loren del 9 aprile 1962 è una vera donna, e che tutte le altre sono solo brutte copie lesive del buon nome della specie.
La vera pizza, quindi, non esiste. Ed anche l’idea che esista una ricetta originale da salvaguardare e riscoprire è un’assoluta finzione: nella realtà la pizza è semplicemente un prodotto “contenitore” creato dai popolani per riciclare gli avanzi dei poveri pasti precedenti, che si è creata un nome soprattutto attraverso il lavoro delle migliaia di pizzaioli che hanno fatto conoscere la pizza (certo non corrispondente al manuale di Bruxelles) prima di tutto sfamando le classi popolari di mezzo mondo ed adattandola alle esigenze e ai gusto degli stessi clienti.
Ma se questa è la pizza, cos’è la “vera pizza Doc” certificata da una strana lobby trasversale composta da burocrati, ministri dell’agricoltura, pizzaioli vip e commentatori nazionalpopolari?
L’invenzione della “vera pizza” è il risultato dell’unione tra lo snobismo dei presunti gourmet, cioè di quelli che “sanno mangiare” e che si sentono in diritto di stabilire ciò che è buono e ciò che non lo è, ed il narcisismo razzista di chi ritiene che la propria “cultura materiale” (folklore, dialetto, cibo e artigianato “tipico”) sia in qualche modo da tutelare in quanto costitutiva di ciò che si è e, in maniera implicita, migliore ed in contrasto con ciò che proviene da fuori.
Nella nostra epoca queste due culture si incontrano nell’elogio della cosiddetta “cucina tipica”, cioè di quel genere di cucina che rielabora antichi saperi veri o presunti producendo prodotti che lasciano contenti sia gli snob dell’enogastronomico, che amano darsi una patina di popolarità sostenendo la “cucina povera” servita in trattorie e agriturismi costosi ed alla moda, che i provinciali arroganti, beoni, differenzialisti e fondamentalisti che hanno così modo di marcare la differenza rispetto al resto del mondo.
Tutto questo, naturalmente, si fonda su una finzione, che è però a suo modo significativa. Che la “cultura” di questi signori sia effettivamente riconducibile al vecchio detto “Pizza Mafia e Mandolino”, purché certificati, e a null'altro?
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