Come da consuetudine, le città si stanno riempiendo di luci e di addobbi natalizi. E basta attraversare le vie del centro, talvolta anche le più "degradate", per rendersi conto che i negozi gestiti da immigrati stanno partecipando con zelo all’atmosfera generale decorando con fili di luci colorate, spesso improvvisate, le vetrine e gli ingressi delle loro attività.
La febbre non sembra risparmiare nessun settore. Oltre agli esercizi rivolti soprattutto a una clientela italiana, anche i “Pizza & Kebab”, le macellerie e gli spacci gestiti da arabi, africani, indiani e pakistani, frequentati soprattutto o esclusivamente da connazionali, espongono luminarie artigianali talvolta anche più dei negozi gestiti da italiani.
Cosa significa tutto ciò?
Dov'è l'invasione di genti intolleranti e incompatibili di cui si parla? Babbo Natale sta forse salvando le radici culturali e la possibilità di un futuro pacifico nella vecchia Europa?
I discorsi sull'integrazione impossibile partono da un presupposto: ogni individuo appartiene a un gruppo etnico, e di conseguenza è titolare di un pacchetto di mentalità e di tradizioni che ne determinano l'agire e il pensare. Alcuni popoli sono compatibili: etica, religione, costumi, alimentazione, indole (tutti elementi parte di un “pacchetto completo”) possono convivere con la civiltà europea ed italiana. Altri popoli, invece, sono incompatibili: hanno tradizioni, festività, abitudini alimentari, libri sacri, concezioni della vita inconciliabili ed opposte alla "nostra". Il mutamento non è contemplato, se non sotto forma di rieducazione e di addomesticamene completo; tra genti incompatibili ed impermeabili, infatti, mancano le basi anche solo per un semplice dialogo.
Questa situazione prende il nome di scontro di civiltà. E non si tratta di un discorso marginale: se l'idea di compatibilità e incompatibilità tra le culture è uno degli orizzonti cui si ispirano le politiche migratorie di intere nazioni, l'apertura di negozi estranei alla tradizione locale è malvista in molte zone di Italia proprio in quanto "violazione" della nostra cultura, ostacolo all'integrazione e simbolo dell'inconciliabilità tra noi e loro, fino al punto da spingere qualche sindaco "illuminato" a ostacolarne con ogni appiglio l'apertura.
Tutto questo è valido nella teoria, cioè finché il “Pizza & Kebab” tanto osteggiato sente il bisogno di esporre spontaneamente, anche lui, le luminarie di Natale. Come interpretare questa significativa "pratica quotidiana"?
Naturalmente le luci natalizie non possono essere considerate il simbolo di un'integrazione di natura assimilatrice (tra l'altro non auspicabile né realizzabile in pieno). Né possiamo aspettare o pretendere che i migranti si adeguino alla “nostra” idea di Natale, specie all’idea di Natale cristiano che ormai, nei fatti, è stata tanto reinterpretata da non aver più nulla in comune, prima di tutto per gli stessi italiani, con la concezione tradizionale e clericale.
E’ però evidente che le luci natalizie mostrano una cosa altrettanto importante, e cioè che la teoria dello “scontro di civiltà” non funziona perché i processi interculturali si giocano sul campo delle pratiche quotidiane e degli adattamenti graduali a un clima generale, e non sul campo della compatibilità astratta tra culture o testi sacri.
Vediamo cosa ciò può significare, ripartendo dal caso degli addobbi del “kebabbaro”.
Nella realtà, il titolare di un “Pizza & Kebab” o di uno spaccio indiano è portato a mettere gli addobbi di Natale, magari con uno zelo maggiore di quello mostrato dagli italiani, perché si trova immerso in un clima generale che lo induce a ciò. I vicini, la televisione, il comune, la scuola, tutto intorno al migrante parla infatti del “Natale” cioè delle luminarie, della gioia, dei regali ai più piccoli, del regalo (o meglio del “pensierino”).
Anche il migrante, quindi, tende ad adeguarsi. Oltre a vivere immerso negli stessi messaggi e nella stessa atmosfera, infatti, probabilmente egli ha ancora più bisogno di sentirsi partecipe di questo evento collettivo e universale, e più di tutti vuole rivendicare il diritto alla somiglianza ed a quel mondo che magari osservava con fascino, pur tra le contraddizioni, già prima di decidere di intraprendere un’avventura migratoria alla volta dell’Europa. Fin da piccolo, inoltre, egli è vissuto immerso in altre occasioni di gioia e di festa, e non gli costa poi granché arricchire il bouquet di ricorrenze con un appuntamento per di più sincronizzato con chi gli sta intorno.
L’immigrato, quindi, vive immerso in un clima generale, e tra le tante cose respirate respira anche il Natale che in qualche modo entra nel suo modo di pensare. Vi entra naturalmente rielaborato: un incrocio tra la mentalità pre-esistente e ciò che del Natale percepisce dal "clima generale" cioè soprattutto, nel clima di segregazione contemporaneo, dalla pubblicità e dall'arredo urbano.
La metafora del respiro e dell’assorbimento, seppur mediato, di ciò che proviene da un clima generali in cui tutti sono – seppur a vario titolo – immersi, vale un po’ per tutti gli aspetti della “cultura individuale”. In certi ambiti le resistenze e le rielaborazioni sono maggiori e più profonde, talvolta dolorose, ma chi vive immerso in un ambiente realmente comune non può che fare riferimento a quegli elementi “climatici” che, in una maniera o nell’altra, entrano nel vocabolario di tutti.
Questo vale per la moda, per il natale, per gli stili di vita e per tutti quegli aspetti esteriori, superficiali e “folklorici”. Ma vale anche per concezioni etiche più complesse e delicate.
E qui sorge una domanda. In qualche clima etico siamo immersi? Che clima etico generale respiriamo e produciamo, tanto “noi” quanto gli immigrati?
Di fatto, parlando di cose più serie delle luminarie, il clima generale in cui siamo immersi è un clima di tensione, intolleranza, sospensione dei grandi principi ideali, disprezzo, scontro tra gruppi impermeabili, cioè un clima da scontro di civiltà.
Lo scontro di civiltà non è insito nella natura dell’uomo né delle culture, che tendono attraverso gli uomini a dialogare o almeno a convivere. Ma lo scontro di civiltà sta troppo spesso nelle rappresentazioni, che creano un clima generale ostile al dialogo e al confronto.
Se da un lato viviamo immersi in un sistema che propone a tutti il mito del natale commerciale, la fascinazione per il mondo del lusso e dello spettacolo e la passione viscerale per il calcio, viviamo anche immersi in un clima generale che propone una concezione dei rapporti tra culture rifacendosi all’immagine dello scontro di civiltà. E così come tendiamo a rapportarci agli aspetti più frivoli, allo stesso modo tendiamo inevitabilmente a rapportarci anche agli aspetti più controproducenti di questo clima generale.
Le luminarie del “Pizza & Kebab” sono quindi il segnale di un dialogo quotidiano tra “culture”, ma si tratta di un segnale che, nelle cose sostanziali, rischia di essere vanificato dalla presenza di segnali di natura opposta. Così come respiriamo l’atmosfera del natale commerciale, infatti, allo stesso modo respiriamo la convinzione che lo scontro di civiltà esiste e ci coinvolge tutti.
In questo modo, lo scontro di civiltà tende in qualche modo a diventare reale.
Nessun commento:
Posta un commento