Sono le ore 13 di un martedì di metà dicembre. La metropolitana è quasi piena: se non altro così stipati il freddo si sente di meno! Ci sono studenti, qualche straniero, tante persone non meglio connotabili. Il soffitto della carrozza, bianco e lucido, riflette tutti come in un sogno, solo un pò più languidi e rimescolati. Due uomini di mezza età, ben vestiti, parlano ad alta voce di cantieri dondolando un pò; a parte loro, il chiasso del treno in corsa ricopre e cancella ogni altro suono.
Davanti a me una figura umana sta leggendo un foglio. Sembra un atto notarile: c'è scritto che un individuo, dal lungo nome straniero, ha accettato una certa somma in contanti ed in cambio rinuncia ad ogni ulteriore rivalsa, per una questione pare di ferie e di contributi non pagati, nei confronti di due signori italiani. Sul margine del foglio, battuto a macchina su un foglio di protocollo a righe, quattro firme blu strascicate e distratte certificano che è tutto vero.
La pagina viene girata, ma non c'è altro. Forse la persona che regge quel foglio è la persona che ha accettato quella somma, insufficiente ma subito, rinunciando a ulteriori rivalse? Forse è una badante licenziata? Un lavoratore lasciato a casa per la crisi? I contanti che ha accettato giacciono arrotolati nelle sue tasche? E il permesso di soggiorno? Sta lì davanti a me, voltato di spalle, la lunga giacca sintetica e una cuffia nera che gli nascondono i tratti. Anche se potrei appoggiargli il mento sulla testa, non vedo che una mano aggrappata al palo della carrozza. Piega il documento, il prezioso atto notarile, in quattro; lo mette in tasca come una cartaccia. La porta si apre, e lui (o lei) se ne va.
Gente che scende, gente che sale. Dal fondo del vagone giungono tre ragazzi che si fanno largo, senza fatica, scivolando tra la folla. Il terzo cammina strimpellando un violino, forse per accordarlo o per attirare l'attenzione; gli altri due hanno un altro violino e una fisarmonica, che tengono abbassati come armi a riposo mentre procedono con risoluta eleganza.
Si fermano proprio davanti a me, proprio davanti alla porta che si è appena richiusa. La metropolitana è quasi piena, è da poco passata l'una.
Sono giovani. Scarpe un pò vecchie, pantaloni sdruciti ma non troppo, giacche sportive; uno porta una cuffia, gli altri due portano in spalla, come uno zaino, una custodia per violino. L'aria tranquilla, sul viso olivastro qualche pelo adolescenziale. Sono "zingari" musicisti, si direbbe. Stanno lì, fermi, i piedi puntati e le mani sugli strumenti. Il treno riparte. Mentre il terzo continua a strimpellare qualcosa a caso, quello che apriva la fila si mette a parlare.
Auguri generici di buona fortuna, auguri generici di buon Natale. Anche chi era distratto se ne accorge e volta la testa altrove. Poi, anche quello che continuava a strimpellare zittisce il violino, e parla: auguri generici di buona fortuna, auguri generici di buon Natale. «E speriamo che questa crisi finisca presto» aggiunge. Ecco, forse in questo modo si è accattivato l'uditorio?
Cominciano a suonare. E' la Primavera di Vivaldi, la melodia più gioiosa, innocua, celestiale, che è impossibile non apprezzare. I due violini, striduli, sono posizionati ai lati del trio, mentre al centro sta il ragazzone che tiene il ritmo con la fisarmonica.
Certo questi tre ragazzotti sono ingombranti, così piazzati davanti alla porta. La gente che sta sul lato opposto all'uscita comincia a girarci intorno, qualcuno li urta, loro continuano concentratissimi a suonare. Loro, al contrario vorrebbero andare lontano dalla porta per non essere travolti: si dirigono anche loro sul lato opposto, lentamente e sempre continuando a suonare. Con un accordo silenzioso musicisti e passeggeri si scambiano di posto.
Il ritmo diventa sempre più allegro e incalzante, sempre più striduli i violini: mentre il treno corre a tutta velocità la Primavera di Vivaldi sembra assumere una sfumatura infuriata, e gli archi sembrano volere incidere le corde dei due violini che non duettano più, bensì litigano.
I musicisti continuano a suonare, imperterriti, con foga crescente: dal busto in su è come se nulla fosse, mentre le gambe scivolano come autonomamente, non in linea retta bensì seguendo gli spazi liberi, roteando, rimbalzando, come in una danza, in un walzer un pò infernale, lontano dall'uscita. La gente ci passa intorno, o passa anche tra di loro dividendoli; e loro si spostano, appunto, come danzando assorti e senza smettere di suonare. Il ritmo è sempre più incalzante, quasi fastidioso. Gli stridii sono eccessivi, la musica diventa furiosa. Mi divincolo, anche io attraverso il trio di musicisti, urtando con delicatezza il bestione che continua a suonare la fisarmonica e fa un'altra mezza rotazione.
Ecco, anche io sono riuscito a raggiungere il lato dell'uscita. Mi volto.
I tre zingari musicisti hanno quasi raggiunto la porta opposta, quella che non si apre. Tutti i passeggeri si sono spostati, tranne una signora. Rimane lì, stretta in un angolo, immobile e con gli occhi spalancati. I tre musicisti le sono tutti attorno; forse aspettano che si sposti, lasciandogli l'angolo, o forse semplicemente sono presi dal fragore stridulo della Primavera. Probabilmente non l'hanno nemmeno notata: dal vetro mi sembra di vedere, riflessi, i loro volti tesi e concentrati, gli occhi chiusi.
Suonano. Quanto suona forte la Primavera di Vivaldi? Quanto casino possono fare due violini ed una fisarmonica?
Ma io non riesco a togliere gli occhi di dossa alla signora, che sembra una preda in trappola. Ha forse una quarantina di anni, il volto bianco e i capelli tinti di un colore rossiccio che emergono, crespi, da sotto una cuffia. Ha gli occhi spalancati. Si stringe nell'angolo, premendo contro la porta chiusa; guarda con sguardo gelato i musicisti che, imperterriti, suonano con una foga ancora crescente. Non si muove. Ha un'espressione corrucciata, un sopracciglio abbassato, il viso teso, la mascella contratta; butta la testa indietro come sacrificando il corpo per salvare gli occhi, la bocca, le orecchie, che allontana il più possibile dai musicisti.
E loro continuano a suonare. La melodia raggiunge il suo culmine, oramai è assordante. Una rissa tra archi. Un grande happening, grottesco e meticcio, di arte metropolitana.
Poi il treno rallenta, si ferma, la porta si apre. I musicisti si zittiscono, se ne vanno, migrano col loro spettacolo indemoniato verso un altro scompartimento. Non hanno rimediato nemmeno una moneta: il richiamo alla crisi non ha avuto fortuna.
Io devo scendere. Scendo. La sguardo della signora è tornato normale.
Me ne vado con nella mente l'immagine di quegli occhi agghiacciati, senza ragione, dallo spavento.
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