domenica 14 febbraio 2010

Il Comitato per l'islam italiano, o di come affrontare l'Italia multietnica in maniera sbagliata

Si è costituito, al Viminale, il "Comitato per l'Islam italiano", un tavolo di lavoro nominato dal Ministero degli Interni composto da "esperti" che dovrà fornire «idee e proposte» e, soprattutto, legittimazione, alle scelte del governo in tema di integrazione della "minoranza musulmana": «moschee, formazione degli imam, matrimoni misti, burqa etc».

Sulla composizione e sul clima che tirerà nel comitato (zeppo di anti-musulmani militanti e di "musulmani moderati da salotto"), si sono già espressi Lorenzo Declich e Miguel Martinez. Io vorrei invece concentrarmi sulle ragioni per le quali il Comitato, al di là della composizione, è concettualmente sbagliato, inefficace, superficiale.

L'idea alla base di questo Comitato è infatti emblematica di come l'Italia affronta, in maniera sbagliata, le questioni poste dall'immigrazione: Ottica emergenziale e repressiva, riduzione della tematica inclusione al conflitto "cristianesimo-islam", nessun interesse per la rappresentatività.

1) Per cominciare, il luogo e la struttura che ospiterà il comitato e cioè il Ministero degli Interni. Il Ministero degli Interni è il luogo delle emergenze, della pubblica sicurezza, del contrasto alla criminalità: è un luogo in cui si affrontano in chiave repressiva quei problemi che mettono a repentaglio la convivenza civile e la legalità. Inserirvi un "Comitato per l'islam", una struttura che potrebbe costituire l'unico luogo di confronto e di studio in grado di decidere i modelli e le politiche di inclusione, significa continuare a intendere l'immigrazione solo o comunque in primo luogo come un'emergenza, come un pericolo, come un problema di pubblica sicurezza.

Al contrario, l'immigrazione richiede prima di tutto politiche sociali. Le difficoltà di inclusione possono, chiaramente, configurare anche problemi di sicurezza: ma non le si può trattare nell'ambito di una struttura unicamente repressiva, come il ministero degli Interni, bensì in maniera integrata partendo dalle politiche sociali, dal riconoscimento del contributo e delle esigenze dei migranti, dalle politiche attive e propositive. Eppure questo comitato vorrebbe anche «migliorare l'inserimento sociale e l'integrazione delle comunità musulmane»...

2) In secondo luogo, stupisce il fatto che si decida di creare un "Comitato per l'islam", e non una consulta che tratti seriamente le questioni poste dall'immigrazione, cioè dei "nuovi arrivati", ma anche dalla presenza massiccia di persone che vivono in Italia da più di un decennio, o che magari ci sono nate, e che vengono mantenute anche grazie alle politiche ai margini del tessuto sociale. Nei paesi in cui l'immigrazione è un fenomeno di diversi decenni all'immigrazione è dedicato, in alcuni casi, addirittura un ministero; in Italia, dove la questione è relativamente recente e molto tempo è stato perso, tutto si riduce ad una delega a un mediocre sottosegretario e ad un Comitato.

Anche volendo insistere sull'idea di "comunità etnica" (mentre l'inclusione richiede un percorso individuale, che viene intrapreso in maniera spontanea ma che andrebbe forse sostenuto), non si capisce per quale motivo l'attenzione venga concentrata unicamente sui "musulmani" e non, per esempio, sui cinesi, sugli slavi, sugli asiatici, sui latino-americani, sugli africani non musulmani, cioè sulle "comunità" numerose e caratterizzate da problemi in qualche modo specifici e comunque gravi che costituiscono l'Italia multietnica (non certo bi-religiosa) contemporanea. O meglio si capisce perchè l'attenzione sia concentrata sull'islam: pregiudizio anti-islamico, favole sullo scontro di civiltà, psicosi ed anti-islamismo dilagante a livello popolare come a livello dirigenziale. Mi sembrano le premesse migliori per affrontare in maniera efficace una questione spinosa e complicata.

3) Sempre volendo concentrare tutta l'attenzione sulle "comunità", stupisce che tutta la questione venga ricondotta alla dimensione religiosa. Il problema è l'Islam, e può essere risolto solo "addomesticando" l'Islam, cioè creando un "Islam domestico" slavato e posticcio, magari sulla scia dei "musulmani anti-musulmani" alla Magdi (poi Cristiano) Allam ed alla Souad Sbai, molto più vicini alle posizioni dell'oltranzismo anti-islamico che alla sensibilità della maggior parte dei musulmani religiosi immigrati. Osservando la composizione del comitato, stupisce quindi anche l'alta concentrazione di personaggi riconducibili al cristianesimo "militante" ed agli studiosi di diritto religioso: come a dire che sono le religioni, e non i soggetti, a doversi "integrare", perchè i soggetti si integreranno naturalmente seguendo i dettami delle religioni addomesticate.

Questo genere di ragionamento dimentica un mucchio di cose fondamentali: la maggioranza degli immigrati "musulmani" non sono nè religiosi nè, soprattutto, praticanti; la religione non è un monolite, ma un fascio di visioni e di posizioni individuali, e se questo è vero nel cattolicesimo (struttura gerarchica e centralizzata per eccellenza, in cui convivono però Pax Christi e i Lefebvriani) figuriamoci nell'islam, per sua natura fluido e non centralizzato. Ridurre l'immigrazione ad un attrito tra Cristianesimo e Islam, è semplicemente folle. Si dimentica inoltre che l'integrazione è una questione economica e sociale, non certo culturale; almeno, nella tradizione liberale di cui tutti fanno vanto.

4) Infine, nel concreto: in che modo il Comitato si propone di lavorare? Vuole essere un luogo di confronto tra le diverse realtà, ed il capo di una cinghia di trasmissione che veicoli i compromessi ottenuti alla base, alle moschee, alle comunità degli immigrati? Assolutamente no! «Io convoco semplicemente persone che conoscono quel mondo, hanno un atteggiamento positivo, sono ben integrati e possono fornire idee e proposte», ha spiegato Maroni. Una "coalizione dei volonterosi", quindi, che non rappresenta i musulmani italiani ma i musulmani con cui Maroni ha piacere a dialogare a cui aggiungere qualche polemista fallaciano (gente di Libero, gente che ha vinto il "Premio Fallaci"...) e qualche cattolico militante vicino ad "Alleanza Cristiana". Per produrre cosa? Un "islam domestico" che dica no alle moschee, no al niqab, sì agli imam indottrinati da Magdi Allam.

Un islam da salotto, inesistente e surreale, che non farà che radicalizzare quei pochi che credono davvero nell'islam popolare (quello, per intenderci, emerso 30 anni fa per cacciare dall'Iran lo Scià, i russi dall'Afghanistan...), o che semplicemente si stuferanno di essere trattati a prescindere come pericolosi criminali.

D'altra parte, da un governo che sul tema raccoglie insuccessi da quindici anni, che altro ci si poteva aspettare?


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2 commenti:

  1. Molto interessante questo blog, ci sono arrivato un po per caso attraverso "30 secondi" e le note sugli editoriali di Sartori.

    Un paio di domande dici che "l'inclusione richiede un percorso individuale, che viene intrapreso in maniera spontanea ma che andrebbe forse sostenuto". Sono d'accordo sul fatto che è necessario puntare sull'integrazione degli indiviui più che dei gruppi, altrimenti si rischia paradossalmente di rafforzare il sentimento coesione interna, più che l'appertanenza ad una comunità nazionale. Il punto è come farlo. A prescindere da terminologie generiche quali "politiche di integrazione" che azioni concrete mettere in campo per questo processo?

    Secondo punto. Sei contrario agli "imam indottrinati da Magdi Allam". Tuttavia il problema di come vengono scelti e di che cosa dicono gli imam è reale. E' cosi assurdo immagniare che per ricoprire questo ruolo lo Stato voglia "interferire"? Imponendo ad esempio che gli imam in Italia parlino italiano oppure che abbiano studiato in una qualche forma di scuola? E che voglia per quelle ruoli dei "moderati"?

    Che ne pensa?

    Cordialmente

    Massimiliano

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  2. Primo punto, molto complesso: prendiamo l'esempio delle seconde generazioni: bisogna fare in modo che esse non soffrano il fatto di percepire di avere meno possibilità dei coetanei italiani in virtù delle loro origini. Quindi: Libertà di movimento e cittadinanza, ma seriamente, prima dei 18 e non dopo un percorso a ostacoli pieno di cavilli che pochi riescono a superare (basta non poter dimostrare la permanenza in Italia per qualche mese per vedere la richiesta bocciata: basta un'estate in patria dai nonni); sostegno economico serio agli studi, all'avviamento professionale, all'uscita dalla famiglia, allo sviluppo delle loro propensioni individuali (il problema nasce dal fatto che spesso alla base c'è un problema di condizione socio-economica, e su questa sensazione di discriminazione si costruiscono forme di appartenenza reattive che altrimenti non esisterebbero, o rimarrebbero marginali); un clima più sereno, nel quale non si debbano sempre sentire diversi in ogni occasione (quote, mense); sportelli, occasioni di svago, meno controlli ripetitivi a chi ha solo la pelle scura. Non basta lo stato, ovviamente, a cambiare il "clima"; lo stato però dovrebbe dare dei messaggi costruttivi ed evitare le discriminazioni ulteriori che oggettivamente esistono, e che accrescono la rabbia.

    Punto secondo: l'imam è un leader comunitario, un punto di riferimento nonchè una persona che fa da tramite tra l'uomo e il sovrannaturale. e i leader, per essere tali, devono avere una leadership: leadership che deriva dalla capacità di essere "uno della gente", di accreditarsi come persona onesta, credibile, spontanea emanazione della comunità. Questi leader continueranno a esistere: se non lasciamo che essi si affermino nella maniera più spontanea possibile, ne nasceranno di altri più incazzati nelle cantine e nei capannoni. Fermo restando che la partecipazione dei musulmani soprattutto giovani alla religione è estremamente limitata

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