sabato 20 febbraio 2010

Attenuanti religiose e padri padroni. Hina, sei stata taggata

Hina Saleem è stata taggata. Alla base dell'omicidio della giovane bresciana di origine pachistana, secondo la definitiva sentenza della Cassazione, «un patologico e distorto rapporto di possesso parentale»: non «ragioni o consuetudini religiose o culturali», bensì la rabbia di un padre-padrone. Senza differenze di razza o di religione.

L'omicidio di Hina è stato così, finalmente, inserito nella giusta cornice: quella di un femminicidio. E la colpa non è stata fatta ricadere su culture o religioni strane bensì, implicitamente, su uno stato incapace di proteggere i soggetti deboli dalla follia di un padre padrone. Il primo elemento fondamentale è proprio questo: lo stato avrebbe dovuto proteggere con tutte le sue forze la libera scelta di Hina. L'integralismo, così come le altre forme di imposizione violenta, non si combatte con le leggi, con le manifestazioni, con i proclami, ma con iniziative concrete di aiuto a coloro che vengono perseguitati per una loro scelta individuale. Qualcosa, nel caso di Hina come nel caso di tante ragazze italiane, non ha funzionato.

La sentenza ha permesso inoltre di svelare una sfaccettatura allucinante del nostro codice penale. Perchè a tifare per le «ragioni culturali e religiose» non c'erano solo gli ultras dello scontro di civiltà, i sostenitori della non integrabilità dell'islamico, ma anche gli stessi avvocati del padre padrone che contavano in un paradossale sconto di pena per motivazioni religiose.


Quali basi puà avere una apparentemente incomprensibile attenuante per motivi religiosi? 

Le pene più severe sono giustificabili, da Beccaria in poi, soltanto quando hanno una funzione deterrente: servono a fare in modo che il potenziale criminale, in una situazione di piena libertà di scelta, possa sapere che i costi (30 anni di galera) sono superiori ai benefici. Ma la deterrenza funziona solo, appunto, quando il potenziale criminale è libero di scegliere.

Esempio. Un uomo che ruba una mela perchè spinto dalla fame, dal bisogno, non è pienamente responsabile del suo atto: nel momento in cui allunga la mano non è completamente libero, come chi ruba una mela che potrebbe comprare, bensì è mosso dalla fame. Ruba a partire da un moto interno incontrollabile, istintuale; lo farebbe, probabilmente, anche rischiando mille anni di carcere perchè il bisogno cui quella mela risponde è per lui così grande, così prioritario e vitale, da far cadere tutto il resto in secondo piano. In questo caso, aumentare la pena non è altro che un'inutile crudeltà che non riduce il crimine nè prima nè dopo la pena (in assenza di rieducazione). Non ha una funzione sociale, se non quella di parcheggiare un essere umano per qualche tempo dietro le sbarre dove, a spese dei contribuenti, non farà che alimentare la sua rabbia ed il suo disagio.

La ragione alla base delle attenuanti è proprio questa: nell'atto di commettere il crimine, il soggetto non era libero ed è inutile accanirsi su di esso: l'avrebbe fatto, paradossalmente, anche se ciò gli avesse comportato 1000 anni di carcere. Questo è vero, come visto, quando il movente è un bisogno, una dipendenza, una compulsione grave. Ed è vero, naturalmente, quando è in gioco la famosa "incapacità di intendere e di volere" psichiatricamente misurata, che porta ad inquadrare il trattamento del criminale, piuttosto che in termini di punizione e di esemplarità della pena (che servirebbe solo a saziare la voglia di sangue della "società", non a ridurre i rischi), in termini di rieducazione.

E' questo il caso, apparentemente, anche dell'omicidio di Hina Saalem. Perchè è vero che il padre lo avrebbe fatto anche a costo della sua vita, tanto erano forti le turbe che lo animavano. Con «motivazioni religiose» non si sarebbe dovuto intendere il fatto che è stata la religione o la cultura a prescrivere al padre l'omicidio della figlia ribelle, bensì il fatto che la «motivazione culturale e religiosa» agisce obnubilando la mente, in maniera simile ad una qualsiasi turba psichica. La religione, così come la follia, può avere sul soggetto una presa tale, alterando la percezione e la personalità, da ridurre la libertà e la responsabilità rendendo inutili i deterrenti classici. Può produrre, in qualche modo, una "incapacità di intendere e di volere"; e la severità, in questo contesto, è solo un inutile accanimento che serve più che altro a rassicurare la folla, piuttosto che a ridurre i crimini e a recuperare (come da Costituzione) il criminale. 

Non si può, tuttavia, mettere sullo stesso piano il bisogno e la patologia psichiatrica, su un piatto, ed i fondamenti religiosi di un'etica individuale dall'altro. In uno stato laico, la religione non deve costituire una scusa sufficiente: bisogna togliere alla religione il diritto di deresponsabilizzare l'individuo fino a renderlo meno responsabile di fronte agli altri e di fronte allo stato.

Bene hanno fatto i giudici a rifiutare le attenuanti per ragioni religiose e culturali. E meglio farebbe, il legislatore, a eliminare questo retaggio clericale dal nostro codice penale. Riportando la religione nella dimensione che più si confà ad uno stato laico: alla dimensione di credenza personale di natura comune, da rispettare come qualsiasi convinzione ma da non trattare con guanti speciali quando qualcuno prova ad utilizzarla come scusa per violare le leggi dello stato liberale.

La religione andrebbe trattata come un qualsiasi ragione alla base dell'agire: come la passione per le auto, l'odio per una persona, l'adesione ad una setta satanica, il desiderio di potenza. Tutte cose che, in un modo o nell'altro, limitano la libertà e possono produrre crimine. Ma che, allo stesso tempo, non costituiscono una ragione sufficiente, come sono al contrario la follia o come il bisogno, per motivare l'applicazione delle attenuanti. Se anche tutto ciò non avrà effetto deterrente, almeno non fornirà facili giustificazioni e non metterà la religione implicitamente al di sopra delle leggi dello stato.

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