domenica 3 gennaio 2010

Non siamo tutti belli, anzi. Come liberarsi dalla Tirannia dell'estetica

("Il Pensiero Selvaggio" per FiloPop)

L’apparenza estetica è, forse come mai prima, fondamentale. Se da un lato ciascuno di noi sembra avere la consapevolezza che il proprio aspetto è in qualche modo cruciale, dall’altro i modelli proposti dai media tendono a diventare sempre più irraggiungibili, elitari, onerosi.

Anche per questo, un numero enorme di persone vive il proprio aspetto fisico con imbarazzo e disagio. Il confronto con i modelli televisivi è, per i più, proibitivo; ed anche laddove questo confronto viene di fatto negato in partenza, i modelli agiscono sulla percezione facendoci sentire un po’ più “brutti” ed un po’ più diversi di quello che in realtà siamo, almeno rispetto alla media nazionale, e facendoci in qualche modo pesare questa mancanza presunta. In un modo o nell’altro, quasi nessuno si sente completamente “a posto”.

Allo scopo di contrastare questa tirannia dei modelli estetici, liberando le persone dal disagio legato all’apparenza, sta emergendo all’interno della stessa “cultura pop” una sorta di nuova prospettiva che sostiene pressappoco questo: “Siamo tutti belli”, o “tutti lo possiamo diventare”.

La prospettiva del “Siamo tutti belli” è forse la più antica e, oltre ad avere vaghi richiami al catechismo, spopola anche nella cultura popolare: dalla campagna pubblicitaria della “Dove” “Per una bellezza autentica” alla hit pop di Cristina Aguilera “Beautiful” (“you are beautiful / no matter what they say / world can’t bring you down / you are beautiful / in every single way”), fino ad arrivare alle infelici “campagne di sensibilizzazione” di Studio Aperto a favore delle bellezze “in carne” (cioè dalla 42 in su).

La prospettiva del “Tutti possiamo diventare belli”, oltre ad essere insita nella millenaria cultura della cura del proprio corpo, ha anch’essa una sua forte dignità nel mondo delle rappresentazioni e dei modelli condivisi (cioè la Tv): oltre a fondare buona parte della pubblicità commerciale, è infatti alla base di una recente serie di reality show che vorrebbero insegnare soprattutto alle donne “come diventare” o “come imparare a sentirsi” belle: dal recente Ciccia è Bella ai vari Bisturi, Il brutto anatroccolo fino alla serie di Mtv Made.

Vorrei provare a dimostrare che entrambe queste strategie sono inefficaci e “bugiarde”: non siamo tutti “belli”, né lo potremo mai diventare. Forse il disagio può essere superato solo uscendo dal paradigma per il quale l’essere “belli” è, in qualche modo, una necessità, trasformando l’aspetto esteriore in un aspetto marginale (non centrale ma nemmeno inesistente) nella presentazione e nella percezione di sé.

L’idea che siamo tutti belli si rifà, in via di principio, all’idea (condivisibile) per la quale la diversità è ricchezza e il gusto è soggettivo. Giustamente, si fa notare che vi sono uomini che adorano le donne sovrappeso (e vice versa), che i modelli proposti dalla televisione sono in qualche modo irreali, che la bellezza ha prima di tutto a che fare con l’interiorità o che tutti hanno in qualche modo “il diritto” di sentirsi belli e di non essere denigrati in virtù di una caratteristica “ascritta” (cioè naturale e immodificabile) quale la bruttezza. Lo stesso vale per l’idea che tutti lo possiamo diventare, che si rifà o a un’idea di modificazione drastica del proprio corpo (Bisturi) o a un’idea di “valorizzazione” e di (impegnativo) camuffamento dei propri estetismi (Il Brutto Anatroccolo), o a un mix di camuffamento e modificazione della propria percezione di sé (Ciccia è Bella).

Purtroppo tutto ciò non funziona, se non in maniera temporanea, snaturante e, in parte, grottesca.

L’uomo è prima di tutto un animale sociale. È vero: esiste un “gusto” in quanto giudizio di natura soggettiva, che fa sì che anche il grasso, lo storpio, il diverso o anche solo il “bruttino” possano sicuramente essere apprezzati ed amati anche da un punto di vista puramente fisico e superficiale, spesso, ma non necessariamente, all’interno di un apprezzamento più generale, che ha a che fare con il vissuto, con le qualità umane e morali.

Ma esiste anche un gusto collettivo, che tutti noi percepiamo e che ha a che fare con i modelli. Il disagio con il proprio corpo deriva proprio dall’inadeguatezza rispetto ai modelli che tutti, anche se lo neghiamo, percepiamo e confrontiamo quasi inconsciamente con noi. In altre parole, per quanto possiamo convincerci di essere belli, e per quanto possiamo essere apprezzati ed amati anche esteriormente da qualcuno, sappiamo che esiste un’idea di bellezza fisica condivisa e che il nostro essere diversi ci renderà “oggettivamente” brutti agli occhi degli altri. La bellezza soggettiva conta, ma quando si crea il chiodo fisso della bellezza lo sguardo non può che scivolare anche sui canoni condivisi, ed il confronto genera disagio.

Purtroppo, i canoni di questa bellezza condivisa non sono per tutti. Essi, in qualche modo, trascendono anche l’aspetto delle singole attrici e delle singole modelle dalle quali vengono rappresentati: spesso queste icone di bellezza, paradossalmente, si sentono in qualche modo brutte. La stragrande maggioranza delle persone comuni non potrà mai essere “bella” in senso oggettivo: non c’è che da rassegnarsi. Ci si potrà provare a convincere del contrario: la nostra anima sociale, prima o poi, ci riporterà bruscamente alla realtà – possiamo leggere ciò anche come una forma di “intelligenza sociale” nonché come utile meccanismo difensivo che ci evita certe cadute nel ridicolo. D’altra parte non possiamo essere tutti belli: la bellezza esiste solo se esiste, all’opposto, la bruttezza. Possiamo provare a spostare l’asticella sempre più in là, relegando alla bruttezza soltanto i più deboli ma ciò, oltre ad essere estremamente precario, si scontra con il fatto che i modelli, essendo esclusivi, sono ben al di là della portata della quasi totalità delle persone comuni.

Dobbiamo quindi rassegnarci a soffrire per la nostra bruttezza? Non ci resta che la misantropia, o la battaglia contro i “mulini a vento” dei modelli? Dobbiamo fuggire dalla realtà, ipnotizzarci, mutilarci, o vivere nell’allucinazione per la quale saremmo belli anche se, oggettivamente, non lo saremo mai?

Assolutamente no.

Credo che la chiave stia nell’accettare la consapevolezza della propria “non bellezza”, ridimensionando il valore della dimensione estetica: senza cioè negarla né assolutizzarla, bensì ricollocandola in una posizione più laterale del sé. “Non sono bello, e non lo potrò mai essere (magari anche solo per una questione di priorità). Ma non me ne importa più di tanto”, potrebbe essere il nostro nuovo mantra.

L’idea che tutti siamo belli, o che tutti lo possiamo diventare, è errata perché non nega il fatto che la percezione e la rappresentazione del sé sia fondamentale. In altre parole, questo genere di discorso non è in grado di uscire dal solco della tirannia dell’estetica: continuando a sentire il bisogno di “sentirci belli”, non facciamo che dare peso al fattore estetico dimenticando che, necessariamente, la nostra anima sociale prima o poi riemergerà riportandoci a contatto con la realtà, e cioè con il fatto che “oggettivamente” (cioè sulla base del gusto condiviso, cioè in sostanza dei modelli), siamo tutt’altro che belli. E la cosa ci seccherà non poco.

Essendo animali sociali, non possiamo nemmeno negare il valore della rappresentazione estetica del sé. A meno di non essere solidi filosofi o eremiti di professione, non possiamo infatti negare che i modelli estetici esistono e che tutti, inevitabilmente, ci riferiamo ad essi: è lo stesso meccanismo, d’altra parte, per cui ci laviamo, indossiamo certi indumenti, salutiamo le persone con una stretta di mano e ci accoppiamo secondo determinate modalità.

Non possiamo quindi esimerci dal fare qualcosa per non negare in maniera frontale questi modelli: abbiamo il “dovere”, se vogliamo conservare una minima dose di serenità, di adeguare in qualche modo il nostro aspetto senza negare il problema perché tanto “siamo tutti belli” o “qualcuno ci vuole bene così come siamo”. Ripeto: si tratta di una forma di “intelligenza” e di “spirito di autoconservazione” sociale, non di una fuga dalla libertà e dalla genuinità.

Allo stesso modo, però, dobbiamo provare a ridimensionare la questione bellezza.

Chi l’ha detto, infatti, che c’è bisogno di essere e di sentirsi belli a tutti i costi? La nostra anima sociale ci richiede semplicemente di non essere brutti: l’eccellenza, o meglio la caratterizzazione di sé (intesa come costruzione e rappresentazione di ciò per cui desideriamo essere riconosciuti), si può e si deve giocare su altri piani su cui la competizione è più aperta.

Il corpo può ad esempio essere ricollocato come uno tra gli elementi che, insieme ad atteggiamento, gusto, idee, personalità, modo di fare, biografia, scelte di vita, e chi più ne ha più ne metta, costituiscono ciò che noi siamo di fronte agli altri.

Se l’insieme di questi aspetti crea un qualcosa di sostanzioso, stiamo pure sicuri che l’essere “non brutti” sarà più che sufficiente.


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