sabato 9 gennaio 2010

«Dobbiamo difendere le "nostre" donne»?



L'hanno affermato anche ieri alcuni dei bravi uomini di Rosarno (immoratalati in questo video d'epoca in una loro antica danza tribale), facendosi forti davanti alle telecamere, le spranghe ed i bastoni sguainati contro gli ex schiavi ribellati ora braccati: «dobbiamo difendere le nostre donne».

Il discorso, sotto sotto, cade infatti sempre lì, sui vecchi retaggi tribali: le donne come una proprietà, come una dotazione, come un patrimonio collettivo. Le donne come costola, e come parte molle della società (ventri e bocche, mica menti ed ossa, in corpi esili e inermi) che gli uomini, i guerrieri, hanno il dovere di difendere. Difendere, naturalmente, dagli altri, dalle bande vicine (e un pò da loro stesse). Ma ne siamo veramente sicuri?

Quanti scalpi ci vogliono, nell'Italia tribale del 2010, nella provincia profonda veneta o calabrese, per guadagnarsi il rispetto, per essere uomini, per meritarsi o ricevere in usufrutto dal clan una donna da far sentire tale?

Questo genere di discorso, posto in questi termini, può sembrare marginale e irrilevante.

Ma la xenofobia e il razzismo, anche nell'anno 2010, si giocano spesso sui timori che hanno a che fare con la difesa, da pericoli esterni fantasiosi o quantitativamente irrilevanti, delle «nostre donne» in quanto patrimonio inerme da difendere. Anche se le forme di difesa tendono a diventare sempre più sottili e sempre meno efficaci, sotto sotto esse rimangono più forti che mai, come dimostra la retorica del difendere le «nostre donne» coi bastoni che, diffusissima tra i giovani, spesso raccoglie consensi anche e soprattutto nel genere femminile.

Vediamo come questa retorica si declina nella quotidianità.

Prima di tutto le donne vanno, anche se in maniera sempre più velata, difese da loro stesse: è spesso ancora compito della famiglia, ad esempio, quello di vigilare le frequentazioni e di esercitare pressioni sulla scelta del partner, con il sogno che esso provenga da una famiglia conosciuta, magari da una famiglia "del paese". Il tutto in un mix di disprezzo maschilista (mica può decidere da sola), di volontà genuina di tutela (è gracilina, povera) e di difesa dell'onore maschile e tribale che la donna può mettere a repentaglio: se la donna sgarra, l'ostracismo e la damnatio memoriae diventano inevitabili. Talvolta la si può anche ammazzare (versione per "pensabenisti", e speculare versione per ultras leghisti), fino al 1981 beneficiando delle attenuanti legali, più spesso la si mette semplicemente alla porta.

In un modo o nell'altro, come recita il detto popolare «moglie e buoi dei paesi tuoi»: e se i buoi autoctoni, oramai, sono stati sostituiti senza troppi patemi dai pochi modelli standard geneticamente selezionati, è ancora meglio che la moglie (e soprattutto il marito) sia «dei paesi tuoi». A priori, se non altro per evitare "conflitti interculturali" nelle versioni pseudocolte. In ogni caso, salvo equivoci, il possibile partner deve subito essere testato dalla famiglia della ragazza, e deve essere in qualche modo approvato e introdotto nel clan.

Non ci si pensa, ma dietro c'è lo stesso meccanismo (solo con diverse gradazioni di intensità e di ipocrisia) per cui alcune donne nell'Afghanistan tribale, come già dell'Italia rurale di pochi decenni fa (se non contemporanea: vedi video, dal secondo minuto), non possono andare al mercato (o al centro commerciale) se non velate ed accompagnate da un membro della famiglia di sesso maschile.

In secondo luogo, soprattutto, le donne vanno poi difese dall'esterno, dal razziatore sconosciuto e straniero. Il quale, se non riesce a prendersi le «nostre donne» con l'inganno e con la dissimulazione (cfr. alla voce coppie miste), lo potrebbe fare con la forza, con lo stupro. Proprio sullo stupro, sull'atto rapace (e quantitativamente marginale) che sfida e spezza le reti di controllo maschile svelandone le falle e la precarietà, si concentra l'immaginario della contrapposizione tribale contemporanea, l'ultimo stadio (che contiene in sè tutti i precedenti) delle difesa delle «nostre donne» che ha tra i suoi frutti anche razzismo e xenofobia.

E poco importa se la violenza anche sessuale sulle donne è nella stragrande maggioranza dei casi domestica, spesso legata alla famiglia o agli "amici di famiglia", magari allo stesso contesto matrimoniale o parentale. Poco importa se la violenza domestica è spesso proprio legata all'idea stessa di «mia donna», di donna come patrimonio maschile, e se la donna non denuncia perchè la famiglia, il luogo degli orrori, è di fatto tutto il suo mondo perchè lì è stata rinchiusa. Poco importa se un numero consistente di casi di violenza sessuale extradomestica è commesso da italiani (o da altri stranieri) ai danni di donne straniere, ampiamente più esposte ("rivoltante" il caso dell'ex sindaco leghista poi animatore della civica "padroni a casa nostra" Roberto Manenti, che si è beccato 6 anni per ripetuta violenza ai danni di una prostituta diciannovenne rumena). In Italia, anno 2010, il parlamento ospita decine di deputati che devono il loro titolo alla capacità di cavalcare questo genere di atavica sensazione.

Dobbiamo quindi «difendere le nostre donne»?

In primo luogo le donne non sono «nostre»: sono donne, soggetti con cervello e parti dure, e sono unicamente loro stesse. E le donne, laddove può esistere una oggettiva condizione di debolezza (per intenderci i parcheggi bui e deserti, dove chiunque rischia in ogni caso di venire rapinato), vanno tutelate dalla società in quanto tali, siano esse sorelle di sangue, sconosciute o prostitute africane.

Il punto centrale è però un altro: è proprio la cultura delle «nostre donne», la cultura tribale della donna come patrimonio sotto la tutela maschile, insieme alla cultura della «donna come merce di consumo», la cultura della donna come elemento decorativo o di piacere, alla base della maggior parte delle violenze psicologiche, esistenziali e materiali, sulle donne che alzano la testa o che si scontrano nella noia e nei deliri di onnipotenza frustrata dell'uomo.

E' questa cultura che dobbiamo prima di tutto combattere.

Altro che le ronde con le clave.

------------
(sul tema leggi anche «Che genere di sicurezza. Donne e uomini in città» di Tamar Pitch, sociologa dell'università di Perugia).

4 commenti:

  1. sei proprio un grande uomo
    sei più unico che raro:)
    grazie Mancina

    RispondiElimina
  2. Il "difendere le nostre donne" è tutto un pretesto, un pretesto per "nobilitare" il loro razzismo e le loro cattive azioni. Era lo stesso pretesto che usavano gli statunitensi dicendo che dovevano proteggere le loro donne dal "Comunismo", lo stesso pretesto usato dai fascisti per lo stesso motivo, lo stesso pretesto usato dai nazisti per difenderle dai "Giudei", e via così. Non c'è davvero niente dietro, neanche a livello tribale, qui siamo dinanzi a gente o in palese malafede (come lo erano i propagandisti nazisti), o gente che ha portato il cervello al macero e utilizza tecniche di propaganda rozzissime, basate sulla paura ("fear-mongering", come dicono gli inglesi) per legittimare la loro xenofobia. Da notare che spesso l'espressione "difendere le nostre donne" muta in "difendere i nostri figli" o "difendere i bambini". Hitler sosteneva che, in nome della difesa dei bambini, al popolo si poteva far ingoiare ogni bugia.

    RispondiElimina
  3. Che con le leggi che ci sono credo sia il caso di difendere gli uomini. Queste megere hanno anche il consenso delle istituzioni, poi dicono di non farsi giustizia da soli.

    RispondiElimina