Il "Brain Drain", cioè il fenomeno per cui i paesi ricchi riescono ad attirare (non necessariamente con incentivi materiali, ma spesso con facilitazioni nella concessione di permessi e visti dedicati alle skilled migrations) migliaia di medici, ingegneri, professionisti e giovani istruiti dai paesi del sud del mondo, è spesso interpretata (storicamente dalla sinistra no-global, recentemente dalle nuove destre europee) come una manovra di stampo neo-colonialista in cui i paesi sviluppati si appropriano a basso prezzo di una risorsa fondamentale, i giovani istruiti e di talento, a discapito dei paesi del sud del mondo (da cui questi ragazzi provengono), che si trovano così privati proprio di quei talenti che avrebbero potuto contribuire al miglioramento della situazione interna. Altra faccia della medesima in medaglia, la battaglia italiana contro la "fuga dei cervelli": anche se in Italia il colpevole è il governo italiano e non i paesi che "ci scippano i talenti" (come se facessimo fatica a riconoscere l'Italia nel ruolo di paese inerme e vessato, quasi da sud del mondo), i cliché sulla fuga dei cervelli dipingono l'emigrazione di questi ragazzi come un grave smacco e come un ostacolo allo sviluppo del paese.
Ma se l'emigrazione dei giovani istruiti è un problema per le patrie di origine, come dovremmo comportarci? Dovremmo forse auspicare una chiusura delle frontiere, dovremmo forse obbligare questi ragazzi a stare "a casa loro" e a fare il bene del paese? Altrimenti: auspicando la libertà di movimento delle persone, e concedendo che ciascuno ha il diritto di inseguire prima di tutto i propri obiettivi e le propensioni, stiamo forse contribuendo all'impoverimento ulteriore del sud del mondo? La libertà di movimento delle persone andrebbe forse messa alla stregua della libertà di movimento dei capitali e delle merci, ed in quanto tale ostacolata o regolamentata affinché non si traduca in un'accentuazione delle diseguaglianze?
In altre parole: (a) la libertà di movimento delle persone va di pari passo con la riduzione delle diseguaglianze e delle ingiustizie economiche, o al contrario (b) le migrazioni non sono altro che un travaso di alcune persone, un "cambiamento di squadra" da parte dei più intraprendenti e dotati, al termine delle quali però i rapporti di forza fra continenti non cambiano o addirittura diventano paradossalmente ancora più asimmetrici?
Foreign Policy elenca una serie di argomentazioni a favore dell'ipotesi (a), quella dell'armonia fra migrazioni e miglioramento degli equilibri sociali ed economici ("Doctors without boarders"). In estrema sintesi:
- Le skilled migrations generano un forte flusso di rimesse a vantaggio dei paesi di origine
- La libertà di movimento crea legami e reti di contatti transnazionali, che possono tramutarsi in occasioni di business
- La libertà di movimento sono uno stimolo allo scambio di merci (gli emigranti possono trasformarsi in importatori, possono aprire aziende nei paesi di origine, possono aprirvi stabilimenti)
- La libertà di movimento produce uno scambio di idee (efficienza produttiva, modelli di business, modelli di governance, competenze)
- La prospettiva di un'emigrazione spinge i giovani (anche quelli che poi non emigreranno) ad istruirsi di più e ad essere più intraprendenti
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