Il New York Times dedica un lungo articolo (Talk Doesn’t Pay, So Psychiatry Turns to Drug Therapy) alla graduale trasformazione degli psichiatri americani, da medici disponibili a dedicare tempo ed ascolto (psicoterapia) ai pazienti, in efficienti distributori di prescrizioni farmacologiche orientati alla produttività. Un tempo, "Like many psychiatrists, [dr. Levis] treated 50 to 60 patients in once- or twice-weekly talk-therapy sessions of 45 minutes each. Now, like many of his peers, he treats 1,200 people in mostly 15-minute visits for prescription adjustments that are sometimes months apart. Then, he knew his patients’ inner lives better than he knew his wife’s; now, he often cannot remember their names. Then, his goal was to help his patients become happy and fulfilled; now, it is just to keep them functional".
Secondo l'articolo, alla base di questa deriva (che pesa soprattutto sulle spalle dei pazienti, che vedono frustrate le loro esigenze di ascolto a vantaggio di dosi massicce e standard di psicofarmaci che si limitano a calmare i sintomi, senza risolvere il disagio) vi sarebbero (1) le politiche adottate dalle assicurazioni sanitarie che scoraggiano la psicoterapia rendendola meno redditizia per i medici rispetto alla somministrazione dei farmaci ("a psychiatrist can earn $150 for three 15-minute medication visits compared with $90 for a 45-minute talk therapy session"), (2) la competizione sul prezzo portata da psicologi e operatori sociali meno competenti (privi di formazione clinica, e quindi non abilitati alla somministrazione di farmaci), e (3) l'indisponibilità degli psichiatri a ridimensionare il loro elevato tenore di vita per salvaguardare la qualità del loro operato.
Il tutto - sembra - a vantaggio della medicalizzazione irresponsabile e inconcludente e a discapito della qualità del trattamento al disagio; con conseguenze drammatiche per gli individui (specie per i meno facoltosi), ma anche e soprattutto per la società nel suo complesso.
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