sabato 11 settembre 2010

"L'esercito dei baby immigrati alle porte". Partiamo dal linguaggio...

Un "esercito di baby immigrati bussa alle porte delle elementari", scrive Repubblica. E così quello che dovrebbe essere un articolo asettico tutto numeri e dichiarazioni di esperti, quello che dovrebbe essere addirittura un articolo di denuncia dell'impreparazione, del razzismo istituzionale, delle discriminazioni strutturali che complicano gratuitamente la vita degli italiani di domani e delle loro famiglie, finisce per rievocare quell'idea di invasione barbarica che sta poi alla base di tutte le storture di cui sopra.

Prima di tutto l'immagine dell'esercito, che forse non è poi così adatta a designare l'insieme dei bambini di 5 anni figli di stranieri (ce li immaginiamo uno con lo zaino dei Gormiti, l'altra con i nastrini bianchi tra i capelli) che si apprestano a cominciare la scuola. L'esercito è un insieme di elementi tutti uguali, di soggettività sacrificate sotto una bandiera ed una divisa, che si muove in maniera coordinata verso un unico obiettivo tendenzialmente bellicoso: una metafora bellica inutile, specie se si parla di bambini, che però non fa che alimentare (anche su Repubblica, anche in un articolo colmo di buone intenzioni) il clima di paura, la sensazione di assedio e di noi contro loro.



Ma non solo: che dire dell'idea di "baby immigrato"? L'immigrato è colui che deliberatamente si trasferisce in un luogo diverso da quello di nascita; i bambini in questione sono nati in gran parte in Italia (quasi l'80%) o comunque ci sono cresciuti e ci cresceranno. Sono italiani tanto quanto gli altri anche se le leggi e quindi le statistiche e i commentatori li continuano a inserire in una casella altra, separata dai bambini "normali". L'immagine del baby immigrato allude proprio a questo: qualcosa di separato, di diverso, perchè no anche di passaggio. Non un titolare di diritti, ma qualcuno che l'ha fatta volontariamente fuori dal vaso e che come tale può ambire al massimo ad essere tollerato ed aiutato.

L'articolo di Repubblica denuncia, più di tutto, quel mix di elementi legali e "climatici" che mantengono questi ragazzini in una condizione di marginalità. Dimenticando di citarne uno, quasi il più importante: il linguaggio. Perchè alla base delle politiche discriminatorie c'è prima di tutto un vasto consenso alimentato proprio da questo genere di retorica allarmista e bellicista.

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