mercoledì 17 febbraio 2010

"Funzionamento" degli antidepressivi. Una "bugia buona"?

Che gli psicofarmaci utilizzati per la cura della depressione avessero pressapoco la stessa efficacia del "placebo" (cioè di una pillola inerte somministrata nei test ad alcuni ignari pazienti al posto dell'antidepressivo per verificare quali effetti siano dovuti al farmaco in sè e quali alla semplice suggestione) lo si sapeva da tempo.

Ora, però, la conferma arriva da un'analisi dei test presentati dalle stesse case farmaceutiche all'ente americano che regola l'immissione di farmaci sul mercato (FDA): degli effetti benefici dovuti alla somministrazione dei più comuni antidepressivi, più dell'85% è dovuto alla semplice auto-suggestione, cioè alla convinzione di prendere qualcosa "che ci farà stare meglio", mentre l'efficacia del principio attivo del farmaco si ferma al 15% dei miglioramenti riconducibili ai casi più gravi (1).

Gli psicofarmaci fanno in qualche modo "stare meglio": secondo i dati, sette pazienti trattati su 10 reagiscono alle terapia in maniera giudicata "positiva" (2). Allo stesso tempo, però, almeno 6 pazienti su 10 reagiscono ugualmente "bene" anche se trattati con una caramella qualsiasi che essi credono essere antidepressivo. Si "sentono meglio" perchè il farmaco modifica la loro percezione, e forse perchè attiva qualche molla "inconscia" che porta l'organismo ad affrontare i sintomi in maniera migliore.

In tutti i casi, ad essere reali, scientifiche, sperimentate, sono quindi solo le controindicazioni, gravi fino al certificato aumento di pensieri suicidi, e le spese miliardarie che cittadini, "depressi" e stati sostengono per mantenere in vita questa "bugia buona".

A sollevare l'ultimo polverone è stato lo studioso Irving Kirsch (quì sull'Huffington Post, quì sull'Espresso), che ha analizzato grazie al Freedom of Information Act la documentazione presentata dalle case farmaceutiche all'ente che ha approvato l'introduzione del mercato americano degli psicofarmaci ancor oggi più diffusi. Ed i migliori dati presentati dalle case farmaceutiche stesse non lasciano dubbi: almeno l'80/90% dell'effetto positivo dell'antidepressivo è dovuto alla pura e semplice autosuggestione.

Le questioni da affrontare sarebbero molte: l'ipermedicalizzazione cui il disagio psichico è troppo spesso sottoposto ed i conseguenti fenomeni di etero e auto-etichettamento, il problema grave posto dalle controindicazioni, le ragioni sociali alla base di un presunto aumento del disagio psichico (almeno percepito tale), la differenza tra sintomo e problema che dimostra come sia improprio chiamare l'antidepressivo "cura", il semplicismo con il quale si pretende sempre di "aggiustare" l'organismo con una semplice pillola, i grandi interessi mossi dall'industria farmaceutica ed il cinismo con cui opera, la debolezza degli stati, lo smarrimento della classe medica.

L'elemento che più di tutti mi affascina è, però, questo: la forza dell'auto-suggestione e delle forme di persuasione che modificano addirittura la percezione del nostro stato di salute. Perchè gli anti-depressivi, in qualche modo, spesso "funzionano"; forse più superficialmente dei percorsi di recupero integrati e delle psicoterapie, e al prezzo di gravi effetti collaterali che spostano la bilancia benefici-costi verso questi ultimi (e io, nel mio piccolo, mi occupo di questo genere di contro-informazione da tempi non sospetti), ma funzionano. E funzionano non perchè agiscanono in maniera diretta sul nostro organismo, perchè spingano un interruttore interno che improvvisamente ci fa stare meglio: nemmeno coloro che sostengono la bontà "meccanica" degli antidepressivi sono in grado di spiegare in maniera efficace perchè essi dovrebbero funzionare, anche se in misura ridotta, visto che questa branca di studi è ad oggi ancora in alto mare (la teoria che lega la depressione alla serotonina non è suffragata da prove).

Gli antidepressivi funzionano perchè il paziente crede che essi siano efficaci: perchè li prescrive un dottore, perchè appaiono come l'ultima spiaggia (o almeno come la soluzione più efficiente), perchè deresponsabilizzano e non provocano fatica. E, infine, perchè offrono una spiegazione solida, pur a posteriori, ad un evento "inspiegabile" che altrimenti ci spiazzerebbe.

Ci convincono, e noi ci sentiamo meglio: in parte perchè modificano la nostra percezione (nel campo della depressione non ci sono parametri oggettivi, ma solo "auto-certificazioni" soggettive, e forse è anche questa la ragione per la quale le case farmaceutiche investono tanto in comunicazione e poco in ricerca), in parte, probabilmente, perchè attivano nel nostro organismo qualcosa di reale per cui i sintomi si affievoliscono. Il meccanismo è, in qualche modo, lo stesso dei "miracoli", di molte "guarigioni miracolose": suggestione, e migliore percezione della propria condizione.

La forza per guarire è, in molti casi, non fuori ma dentro di noi. Eppure, non sappiamo come mobilitarla. Abbiamo sempre bisogno di credere che sia qualcun altro, a farci stare meglio: un farmaco, una divinità, l'amore, qualcosa che attivi delle energie che in realtà, a voler cercare, non giacciono troppo lontane: stanno là, al di sotto del nostro conscio, razionalmente inaccessibili. O, forse, ci basta che qualcosa ci convinca che stiamo meglio, che proviamo meno dolore, che la nostra tristezza è diminuita. La medicina ha un ruolo fondamentale, nel preservare la nostra salute; ma è pur vero che essa spesso procede a tentoni, ed agisce secondo percorsi che hanno poco a che fare con la scienza e molto con la suggestione.

Eppure, come società, non approfondiamo nemmeno la questione: pur riconoscendo che le cure vanno personalizzate, cioè che la reazione conscia e inconscia del paziente è fondamentale, ci sono milioni di ricercatori e di somministratori di farmaci, e milioni di ricercatori e di somministratori di religioni, ma solo poche centinaia di studiosi dell'effetto placebo.

Cosa succederebbe se domani scegliessimo di proibire o di limitare ai casi gravi gli antidepressivi, come la semplice "scienza" suggerirebbe? Se lasciassimo milioni di persone senza la pillola che li intontisce, che gli provoca dolorosi effetti collaterali, che li etichetta come malati, ma che in cambio offre un appiglio alla loro speranza e alla loro forza interiore? Basterebbe spiegargli che la guarigione può venire solo da loro, che lo psicoterapeuta gli permetterà di andare alla radice della questione? Basterebbe insistere per ridimensionare il loro disagio che spesso per primi chiamano "malattia"?

Il "conosci te stesso", l'introspezione, il confronto, un ambiente sociale e umano armonico, sono la prima soluzione ed il primo modo, forse, per mobilitare quelle "potenzialità interiori", tra cui una visione più ottimistica delle cose, o all'opposto per sciogliere quei blocchi che dialogano negativamente con la nostra salute "chimica" ed esteriore.

Ma se quella degli anti-depressivi fosse davvero, tutto sommato, una bugia "buona"?

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Nota:

(1) Ci sono buone ragioni per considerare questa percentuale ancora inferiore: come riportato da Irving Kirsch, per esempio, perchè un test con placebo sia realistico è necessario che tanto i pazienti quanto i medici non sanno di avere a che fare con un vero farmaco o all'opposto con una pillola inerte. Questo non è sempre vero, e soprattutto gli effetti collaterali reali indotti dallo psicofarmaco inducono chi non prova questi effetti a sapere di avere a che fare con un placebo, e viceversa.

(2) Reagire in maniera positiva non significa "guarire" o risolvere il problema: ci si può trovare di fronte ad una riduzione temporanea dei sintomi, o anche a miglioramenti clinicamente ridotti, o dovuti soltanto a un cambiamento nella percezione della propria condizione. Il dato per cui il trattamento genera benefici in 7 casi su 10 va preso assolutamente con le pinze; in questa sede non mi interessava mettere in discussione questi dati, ma leggerli alla luce dell'effetto placebo.

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