Le città, così come le province, sono sempre più spesso popolate da gruppi di ragazzi di origine straniera. Quando ne vedo, mi tornano in mente i ragazzi di periferia amati dai vecchi film di Pier Paolo Pasolini: immagini in bianco e nero di giovani minacciosi e inermi, disincantati e dolci, goffamente fuori posto tra i mostri, i crocifissi e le luci della vita moderna. Ciondolano spalla a spalla con le mani in tasca e l'aria di attendere, senza ormai alcun entusiasmo, chissà che cosa.
Ma i tempi cambiano: sullo sfondo non ci sono i campi ed i palazzoni della periferia romana, e la campagna da cui la metropoli ha strappato questi giovani scordati ai margini è spesso lontana molte migliaia di chilometri. Essi non strusciano più i piedi sulle strade sterrate, ma sui pavimenti lucenti dei centri commerciali o sulle strade sudice dei ghetti urbani. Ed i “ragazzi di vita” del secolo ventuno, passeggiando, hanno un'abitudine nuova: ascoltare la musica dagli altoparlanti del cellulare.
Per strada, sul treno, sull'autobus, sulla panchina, nel centro commerciale: l'altoparlante del cellulare butta fuori suoni confusi, sporchi; e loro vi si fanno intorno, talvolta canticchiano: è come se il suono creasse piccole bolle attorno a loro immergendoli in uno stesso gas amniotico che ha il sapore di un paese di origine magari mai visto, e contaminato in salsa elettronica, ma in qualche modo reale e comune.
Per i giovani cresciuti nati e cresciuti nel mondo del walk-man prima, e dell’iPod poi, tutto ciò suona strano. Il loro modo di ascoltare musica è infatti del tutto diverso: agganciati al capezzolo del loro lettore multimediale, si immergono soli (o in coppia) nel loro genere musicale preferito. Hanno bisogno della musica e del rumore: ne conoscono appieno la funzione terapeutica, ed anche la capacità di non fare pensare e la possibilità di ottenerne frasi fatte preconfezionate con le quali esprimere all’unisono i propri stati emotivi, tuttavia narcisisticamente individuali. Ma per quanto la musica continui ad essere l’occasione attorno al quale costruire i grandi ritrovi, per quanto la musica continui ad essere un simbolo identitario e una fonte inesauribile di idoli, nella vita normale l’ascolto è ormai esclusivamente individuale: visto dall’esterno, un silenzio mortale.
Ricordo alcuni viaggi in pullmann fatti all’estero. Ricordo, all’alba, la musica reggaeton (ipnotica, irritante, machista) sparata dagli altoparlanti di un vecchio bus pieno di donne e di bambini quechua che da 20 ore si trascina per le Ande peruviane. Ricordo la radio in un minibus romeno, tra Eros Ramazzotti e musica disco anni ’90, mentre fuori le cicogne nidificano sui comignoli scalcinati. E ricordo la corriera sulla quale ritornavo a casa da scuola, dal liceo: il silenzio surreale che vi aleggiava, rotto solo dal brusio di tanti minuscoli auricolari conficcati nelle nostre teste, nelle teste di noi ragazzi.
Se tutti utilizzassero altoparlanti ad alto volume, certo, nessuno riuscirebbe ad ascoltare nulla. E nel gran caos generale, nemmeno il silenzio sacrosanto di chi vuole riposare verrebbe rispettato.
Ma la questione non è soltanto questa. Se l’ascolto è individuale, infatti, ciascuno è libero di scegliere il proprio genere musicale, ed in questo modo non finisce che ad ascoltare solo quello. Mai un genere estraneo lo verrà a disturbare (escluso l’impertinente coetaneo immigrato) con generi musicali nuovi o non ancora apprezzati, con suoni e voci anomale. Non avrà l’occasione di conoscere artisti o radio nuove, fuori dal circuito di ciò che, già conoscendo, si andrà a cercare: nessun incontro fortuito, nessuna conoscenza inaspettata, nessuna sorpresa, nessun fuori programma. Nessun disturbo, ma anche nessuna gioia imprevista, nessuna serendipità illuminante («la serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino», diceva uno scienziato spiritoso), nessuna consapevolezza dell’infinita complessità del suono. Basta un aggiornamento ogni tanto sulla radio commerciale di riferimento, sulla tv musicale, su un sito internet, dalla sorella maggiore o da un amico meglio informato, per costruire la propria playlist personalizzata da ascoltare alla noia sul proprio lettore musicale.
Con l’informazione è la stessa cosa. Ciascuno può creare il proprio elenco di siti apprezzati in cui trovare le informazioni e i punti di vista coerenti con il proprio, e vivere ascoltando solo queste voci con l’impressione di essere profondamente informato. Lo stesso vale, sempre più spesso, anche con i giornali quotidiani e con i telegiornali: notizie ed opinioni tutte pettinate nella stessa direzione, fatte più per aggiornare e per indottrinare chi già nutre un certo orientamento che per far pensare nel senso più completo del termine.
Ricordo, dagli studi di giornalismo, un principio cardine della libertà di informazione: il pluralismo interno. Secondo il principio del pluralismo interno, ogni mezzo di informazione ha il dovere di ospitare, all’interno della propria redazione, individui con culture, storie, opinioni, caratteri, visioni del mondo, concezioni della vita, idee politiche, religiose e filosofiche, diverse. L’informazione completa sta nell’incontro e nell’accumularsi di tutte queste voci, non nello scegliere la posizione che si ritiene più libera o comunque migliore, e nello sclerotizzarsi su di essa. Lo stesso vale per i programmi di opinione: anche se essi hanno il diritto, naturalmente, anche di sostenere – pur in certi limiti - una visione particolare; essi devono però essere alternati nel palinsesto con programmi di opinione vicini ad altre culture, ad altre posizioni, ad altre visioni del mondo.
Naturalmente tutto ciò, benchè immensamente arricchente, è estremamente faticoso sia per chi dirige che per chi ne dovrebbe beneficiare, cioè il comune cittadino lettore. E, a causa di questo, questo principio sta svanendo nel silenzio.
I suoni e le opinioni sconosciute, nuove, diverse, potenzialmente contrastanti con le nostre, ci affaticano e ci disturbano. Ma se la soluzione è il silenzio, e il consumo sterile e individuale di ciò che già “ci piace”, forse vale la pena di tornare a sopportare e magari ad apprezzare anche un po’ di caos e di rumore: la pluralità del mondo, senza la quale la nostra mente muore.
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