martedì 30 agosto 2011

Il ritmo nel sangue (misto). La "danza Kuduru" in prospettiva postcoloniale

La prima notizia è che l'Africa, estrema periferia economica, politica e scientifica del mondo, esiste ed ha un suo ruolo di rilievo nell'immaginario della cultura popolare globale. Il tormentone dell'estate 2011, in vetta alle playlist dei villaggi vacanze, delle radio commerciali e dei canali all music, la "Danza Kuduru", è originaria dell'Angola e l'"africanità" non è un attributo qualsiasi ma è anzi l'elemento centrale a partire dal quale la Danza si posiziona nel mercato e nell'immaginario. E non si tratta nemmeno di un caso isolato: come dimenticare il successo planetario della Waka Waka nell'estate 2010? Fosse per la politica e per gli opinion leaders de noantri, l'Africa continuerebbe a non esistere (o rimarrebbe un buco nero, una cosa così negativa da non poter essere nemmeno nominata); la cultura popolare, al contrario, ha il merito - se non altro - di rappresentare il continente senza connotarlo negativamente e senza limitarlo a un deserto punteggiato di bambini denutriti con le mosche al naso.

Il successo estivo della Danza Kuduru, tuttavia, non racconta solo dell'Africa: la Danza Kuduro è infatti prima di tutto un prodotto e un'icona del meticciato. Originaria dell'Africa lusofona (e più precisamente dell'Angola), la danza Kuduru si è diffusa in Portogallo all'interno della comunità migrante e da quì è stata introdotta in Francia da Lucenzo, cantante e produttore francese (di origini portoghesi), che ne ha inciso una prima versione in portoghese in collaborazione con il rapper originario del Queens Big Ali. Il vero successo della Danza arriva però quando Don Omar, stella portoricana del reggaeton, decide di incidere (in featuring con lo stesso Lucenzo) una versione in spagnolo della danza che diventa colonna sonora del film Fast and Furious 5. Questo suo essere creola, ancora una volta, non è una caratteristica accidentale bensì il segreto del successo planetario: la Danza Kuduru riesce infatti a rappresentare e a raccontare a ciascuno qualcosa proprio perché, in quanto frutto dell'incontro, riesce ad apparire esotica ed allo stesso tempo familiare (in un certo senso "universale"). Soprattutto, essa dimostra a milioni di giovani (spesso quegli stessi giovani imbottiti di retorica etnocentrista) la naturalezza, la banalità e l'irresistibile creatività dello scambio e del metissage culturale. Anche qui, è molto più di quanto tutti gli esperti illuminati e gli attivisti messi insieme siano riusciti a fare.

Ciò non toglie che il successo della Danza Kuduru sia però estremamente problematico e forse, in una prospettiva più ampia, criticabile e negativo. In primo luogo, la Danza Kuduru non fa infatti che creare e confermare gli stereotipi relativi all'Africa (ed ai Caraibi, dove la danza "reggaetonizzata" è stata ricollocata). Nella cultura popolare, l'Africa ha diritto di cittadinanza finché rimane uno scenario immaginario ed esotico: non un continente di genti reali ma un "luogo del (nostro) spirito", un'allegoria del ritmo e della sensuale spensieratezza ad uso e consumo di una platea di giovani benestanti e sfaccendati. La Danza Kuduru non ci dice nulla di nuovo: semplicemente, ci ricorda che l'Africa ha il ritmo nel sangue e che i Caraibi del video musicale non sono altro che un paradiso naturale popolato da mulatte disinibite ad uso e consumo dei possessori di Yacht occidentali. E' difficile pensare che la reiterazione di questo stereotipo possa fare del bene all'africano o al portoricano medio; al contrario, l'immagine che ne viene rafforzata è probabilmente degradante, inferiorizzante e comunque fuorviante. 

In secondo luogo, non possiamo certo dimenticare che la testa ed il portafoglio della Danza rimane saldamente nel nord del mondo: un nord del mondo che, ancora una volta, plasma e preda le risorse del sud (in questo caso la risorsa è un "immaginario") per accrescere il proprio profitto ed il proprio potere penetrando ed influenzando sostanzialmente anche la cultura locale. 

Il fatto che dal commercio degli schiavi si sia passati al commercio della gomma prima, del petrolio poi, e ora delle fantasie di sensualità e spensieratezza, rappresenta un successo solo parziale: in un caso come nell'altro stiamo parlando comunque di risorse che vengono prelevate senza lasciare nulla in cambio, se non un impoverimento (sia esso materiale o simbolico) sostanziale.



Andrea F. - Il Pensiero Selvaggio

 

lunedì 29 agosto 2011

Teoria del resoconto di viaggio

E’ presuntuoso e pericoloso credere che i viaggi ci possano permettere di conoscere e comprendere veramente storie, persone e situazioni.

Per prima cosa, i luoghi che attraversiamo viaggiando sono spesso troppo complessi e troppo ingarbugliati per poter essere letti senza errori. In secondo luogo, il viaggiatore parte per l’esplorazione con un bagaglio pregresso di pre-giudizi, di conoscenze, di compagnie e di letture che orienteranno il suo sguardo una volta sul posto. Allo stesso tempo, lo sguardo del viaggiatore si trova una volta sul posto inevitabilmente abbagliato da troppe cose: non ultima, la ricerca di sé stesso e della risposta alle proprie domande ed esigenze parziali e particolari. Infine, gli stessi luoghi e le stesse persone che fanno da sfondo al viaggio tendono a mettersi di fronte al turista come “in posa”, allestendo a suo uso e consumo alcuni aspetti e lasciandone pudicamente oscuri altri. 

Ciò nonostante, colui che viaggia con gli occhi e con il cuore aperto ha l’opportunità di lasciarsi impregnare di sensazioni, di impressioni, di emozioni e di aneddoti, che si sedimentano fino a creare un punto di vista, un’interpretazione, una prospettiva che può contribuire – insieme alle altre – a comporre un’immagine più veritiera di quel mondo; un’immagine che può avere un qualche valore anche agli occhi del semplice lettore. Inoltre, colui che viaggia trasforma l’altrove altrimenti inconsistente ed astratto in qualcosa di vivo: popoli e storie, informazioni ed emozioni, entrano a far parte della biografia del viaggiatore e questo spazio popolato e reso concreto diventa un luogo di famiglia, spingendo il viaggiatore a ravvivare – una volta tornato alla vita “normale” – la conoscenza e la relazione con quell’altrove ora un po’ più reale.

La convinzione di aver capito e compreso porterà il viaggiatore che racconta ad ingannare il lettore (e sé stesso) rafforzando pregiudizi e semplificando in maniera avventata le cose. Al contrario, la consapevolezza di aver sviluppato una propria parziale visione delle cose aiuterà chi racconta ad alimentare il desiderio di capire ma anche la consapevolezza della complessità e della gravità delle cose e delle parole.