giovedì 30 settembre 2010

McDonald's è pulito? Purezza e pericolo al tempo del cibo industriale

Anche se rispetto a qualche anno fa le cose stanno cambiando McDonald’s è, almeno in Italia, ancora fortemente associato all’idea di sporcizia. Mentre le leggende metropolitane sulle cucine dei fast food, sulla scarsa pulizia e sulla dubbia igiene dei prodotti passano in parte di moda tra i giovanissimi, chi ha lavorato presso uno di questi fast food si sente ripetere ancora ad anni di distanza la stessa domanda (che nessuno porrebbe mai a un cuoco o a un barista): «ma com’è, è pulito?». Dimostrarsi scettici riguardo all’igiene del fast food, è una specie di messaggio in codice per far capire all’interlocutore di saperci fare, di saperla lunga, di prestare attenzione – scansando la disinformazione pubblicitaria – a ciò che si mangia.

Eppure, le pubblicazioni accademiche di storia dell'alimentazione concordano su un punto: una fetta consistente del successo originario delle catene di fast food (e in particolare McDonald's) negli Stati Uniti, fin dagli anni '30 e '40 del ‘900, fu dovuta proprio alla sensazione di igiene che McDonald’s e simili riuscirono a trasmettere ai consumatori dell'epoca. McDonald’s sconfisse i piccoli rivenditori anche perché riuscì a rassicurare i clienti: si impose mostrandosi come rigoroso, trasparente e pulito.

Il fast food, in effetti, nasce dall'applicazione dell'ottica industriale fordista e del pensiero scientifico al settore della ristorazione. In un settore, quello dello street food e dei pasti veloci, caratterizzato da competizione, assenza di controlli e improvvisazione, l'avvento di uno stile di ristorante con cucina a vista, con procedure e prodotti standard, con materie prime fornite da grandi aziende su scala industriale, con un'immagine asettica e grossi macchinari di acciaio, e con un brand da tutelare, rassicurò non poco i consumatori. Tanto che, fin dall'inizio, la fortuna di McDonald's fu quella di convincere i genitori a portarvi addirittura i figli.

Per la sensibilità dell'epoca, industrialità e standardizzazione erano più sicuri e più sani dell'artigianato. Dopo secoli di improvvisazioni, di concezioni mistiche della contaminazione e della purezza, di epidemie e di intossicazioni, la scienza e la macchina erano vissute come paladine della salute: un atteggiamento, verrebbe da pensare, genuinamente illuminista.

Nella contemporaneità, invece, il discorso è rovesciato. L'industria rovina la salute ed il gusto, mentre l'artigianato viene percepito come più sicuro.

Si considera così più sano consumare prodotti a limite di norma igienica, comprare la frutta per strada ("direttamente dal contadino") o cercare la trattoria pseudo-rustica e l'agriturismo a gestione familiare, piuttosto che consumare prodotti standardizzati soggetti a mille controlli sanitari e con un'immagine, un brand, da tutelare. E lo si fa a partire da una favola di saggezza antica, di sano mondo rustico, di "paradiso culinario perduto"; la stessa favola per la quale si considerano più sani i salumi o le conserve fatte in casa, piuttosto che i prodotti degli stabilimenti meccanizzati e a prova di ASL.

Il prodotto surgelato, prodotto industrialmente, calibrato sulle complesse norme igieniche internazionali, magari cucinato davanti agli occhi del cliente praticamente al momento (come nei fast food), viene vissuto come sporco, mentre il pomodoro coltivato in un improbabile orto urbano, tra tangenziale ed ex acciaierie, viene considerato un toccasana.

Dobbiamo metterci il cuore in pace: purezza e di contaminazione sono e saranno, piuttosto che condizioni oggettive, specchi di timori ed insicurezza profonde, nervi scoperti che nessuna rivoluzione scientifica potrà cancellare. La scienza non è nulla, di fronte allo spirito magico.

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