venerdì 9 aprile 2010

Il "progresso" che libera l'uomo dal lavoro e la società dei servizi

Negli scorsi giorni, il blog di Federico Rampini ha pubblicato una lettera inviatagli da un italiano che transita spesso, per lavoro, a New York e per gli Stati Uniti.

«Il paese che vanta uno dei più alti tassi di produttività a livello mondiale - scrive il lettore riferendosi agli USA - si può permettere di avere un numero doppio di camerieri o commessi rispetto a qualsiasi negozio o ristorante italiano, si può permettere di stipendiare persone che ti danno il buongiorno o la buonasera all’ingresso di un supermarket, si può permettere di avere un uomo per strada che ti segnali che c’è un garage con posti disponibili. Sono centinaia di migliaia di posti di lavoro che richiedono una professionalità vicina allo zero. All’inizio ne rimanevo sorpreso poi mi sono fatto l’idea che il sistema comunque funzioni, l’immigrazione e un sistema scolastico pubblico scadente forniscono forza lavoro dequalificata ma flessibile, economica, sfruttabile».



Emergono diversi temi interessanti. Primo, in generale, la capacità dei sistemi economici di generare e di sostenere professioni e servizi sempre nuovi. Secondo, il fatto che c'è sempre più lavoro da fare: la tecnologia non ha liberato poi così tanto tempo. Terzo, il fatto che non è poi così folle parlare di nuovo proletariato urbano. Alla faccia della tecnologia e dello "sviluppo" economico.



Ammetto di far fatica a comprendere, utilizzando gli strumenti del senso comune, come sia possibile che nell'era del computer, dell'automazione e dell'intelligienza artificiale, ci sia in totale più lavoro che in passato: anche se la tecnologia ha fatto schizzare la produttività a livelli un tempo inimmaginabili, sostituendo in molti processi il lavoro dell'uomo, nel 2010 la giornata lavorativa dura più o meno tanto quanto negli anni '70. E magari, alla giornata lavorativa, bisogna aggiungere qualche ora di trasferimento casa-lavoro e un pò di lavoro domestico ripartito, perchè la casa non si pulisce certo da sola (anche la donna, se si vuole tirare avanti, deve oggi trovare un lavoro).



Per che cosa passiamo tutto questo tempo al lavoro, nonostante le nanotecnologie ed il computer?
 
Certo: c'è il debito pubblico creato dai nostri padri, che rivendicano (giustamente) il diritto a potersi trascinare anche per diversi decenni di pensione, da pagare. E c'è un qualche aumento dei consumi, che per la nostra mentalità significa aumento della qualità della vita.
 
Ma ha senso spendere i propri anni migliori completamente assorbiti da lavori tra l'altro spesso non così migliori, a livello di "soddisfazione personale" e di "desiderabilità sociale", di quelli del passato? A che c'è servita la tecnologia, se non è riuscita a liberare nemmeno una mezz'ora quotidiana dal lavoro? Perchè non esistono ad oggi nemmeno le condizioni per poter affrontare questo genere di discorso?
 
Infatti, anche se prima i campi e poi le fabbriche si sono svuotate, la stragrande maggioranza della popolazione riesce ancora a trovare lavoro.
 
A correre in "soccorso" dei disoccupati di tutto il mondo è infatti sopraggiunto, scintillante e elettrizzante, il mondo dei servizi. L'epoca contemporanea è infatti l'epoca dei servizi: le fabbriche si svuotano, e si riempiono negozi ed uffici. Migliaia di persone che movimentano merci e servizi, che offrono servizi alle imprese, che intessono legami e relazioni commerciali, che rivendono di livello in livello ciò che meno del 10% della popolazione produce. Gente che coccola altra gente con servizi inutili che non hanno altra funzione che quella di aiutarci a "ricaricare le batterie" dopo le estenuanti sessioni di lavoro.
 
E tutto ciò è mantenuto in piedi anche grazie all'esistenza di un nuovo proletariato urbano: milioni di poveracci che, rimasti orfani del loro posto di lavoro, confluiscono (come i proletari di Marx impiegati nelle industrie) nelle grandi città dove si fanno una spietata concorrenza abbassando, annullando i costi di prestazioni spesso degne di un uomo-sandwich. Arrivando a dover fare il doppio lavoro, a lavorare 50 o 60 ore a settimana, a non poter pretendere alcuna certezza e alcuna dignità nè, un domani, una pensione sufficiente.
 
Quasi come al tempo della macchina a vapore e del sindacalismo rivoluzionario.
 
Per funzionare, evidentemente, funziona.

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