domenica 18 aprile 2010

I Gatti Persiani, di Bahman Ghobadi (recensione)

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Interculture Musicali / 4 - I Gatti Persiani di Bahman Ghobadi
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I Gatti Persiani (2010), girato clandestinamente dal regista iraniano Bahman Ghobadi, è un film che racconta il mondo della musica underground di Teheran. Indie Rock, Heavy Metal, Hip Hop, Elettronica: musica "occidentale", cantata in persiano, attraverso la quale i giovani un pò borghesi di Teheran cercano banalmente di connettersi al flusso della cultura globale aggirando i mille divieti imposti dalle autorità.

Il bello dei Gatti Persiani sta nel non essere, come sarebbe stato facile, un film retorico: il termine "diritti umani" non è mai nemmeno evocato, e i grandi discorsi su libertà ed oscurantismo sono accuratamente evitati. Protagonista è il desiderio puro e semplice di fare musica, con tutto ciò che essa può significare: un piccolo spazio di autodeterminazione che i giovani di Teheran che più sentono di essere tagliati fuori dal mondo si ritagliano tra cantine, cunicoli, contrabbando. Questa prospettiva minuta, nella sua grande umiltà, rende il film estremamente efficace.



Ne emerge un'immagine un pò confusa, in cui - a parte la musica - tutto è lasciato sullo sfondo. A partire dalle autorità, sempre evocate come un'ombra che incombe sulla normalità quasi ingenua dei giovani musicisti, ma mai mostrate in viso. Forse, ci piacerebbe sapere qualcosa di più sulle leggi, sulla quotidianità, sulle condizioni della gente, piuttosto che assistere a una sequela di video musicali; ma il bello del film sta anche nel non dilungarsi in descrizioni un pò pedanti lasciando spazio prima di tutto allo stupore.

Ragazzi iraniani che suonano Heavy Metal nelle campagne. Giovani cantanti soul con veli colorati e occhiali scuri. Spacciatori di film di Al Pacino, Marlon Brando e cinema indiano. Cantanti hip hop che rappano dai grattacieli in costruzione invocazioni ad Allah.

Giovani che, in un'epoca in cui dalle nostre parti la musica (indie compresa) è ormai stata inghiottita quasi integralmente dal mainstream, ma viene vissuta ancora con la spocchia di chi sta facendo qualcosa di dannatamente alternativo, ci ricordano cosa vuol dire vivere davvero le banalità di un regime e voler allo stesso tempo creare qualcosa da fargli sotto il naso.

Il tutto senza retorica; e in questo modo, banalmente, il messaggio che ne esce è più politico e più convincente di qualsiasi documentario apologetico sull'Onda Verde.

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