In Italia, ormai da anni, spopolano i "talent" show, reality in cui giovani talenti si affrontano nel canto o nel ballo in una vera e propria competizione. Di fronte al proliferare di questo genere di prodotto, che risponde evidentemente nel formato a bisogni e interessi diffusi, la domanda da porsi è una sola: quali valori e quali dinamiche esprimono e trasmettono questi "talent", così come configurati, ai milioni di telespettatori? Ed in secondo luogo: si potrebbe fare di meglio?
Il talent show italiano, dietro la patina giovanilistica, è profondamente "conservatore": poco creativo, autoritario, sterile, maggiormente orientato alla tecnica che all'espressività e all'arte. E la colpa non è del formato, nè della vocazione commerciale: vi sono esempi di successo, ad esempio in America, che dimostrano come un talent commerciale possa avere anche una funzione creativa, propositiva, innovatrice, quasi "sociale", a patto di avere un minimo coraggio anticonformista.
Andiamo con ordine.
In Italia, si diceva, i talent show sono l'emblema di una assoluta sterilità creativa: un semplice susseguirsi di performer, che si confrontano - senza portare nulla di nuovo, oltre forse alla loro voce ed alla loro "storia" - con brani classici e su coreografie somministrate dagli esperti, all'interno di un blando percorso didattico tradizionale (maestro e allievo). Il "talento", nei fatti, non è che una voce manovrata prima dai maestri e poi dai discografici: un semplice strumento chiamato ad eseguire una precisa partitura, senza spazio per far emergere un vero e proprio stile o per proporre alcuna seria innovazione. I concorrenti sono infatti chiamati ad eseguire, ad interpretare, sempre i soliti "grandi successi"; nel far questo, vengono opportunamente plasmati da istruttori-baroni e non fanno che mettere la propria voce e la propria immagine al servizio di un processo "creativo" che è già avvenuto fuori di loro.
In Italia, si diceva, i talent show sono l'emblema di una assoluta sterilità creativa: un semplice susseguirsi di performer, che si confrontano - senza portare nulla di nuovo, oltre forse alla loro voce ed alla loro "storia" - con brani classici e su coreografie somministrate dagli esperti, all'interno di un blando percorso didattico tradizionale (maestro e allievo). Il "talento", nei fatti, non è che una voce manovrata prima dai maestri e poi dai discografici: un semplice strumento chiamato ad eseguire una precisa partitura, senza spazio per far emergere un vero e proprio stile o per proporre alcuna seria innovazione. I concorrenti sono infatti chiamati ad eseguire, ad interpretare, sempre i soliti "grandi successi"; nel far questo, vengono opportunamente plasmati da istruttori-baroni e non fanno che mettere la propria voce e la propria immagine al servizio di un processo "creativo" che è già avvenuto fuori di loro.
Il talent, quindi, non è un modo per far emergere e confrontare stili e forme di espressione nuove e personali, quanto un modo per produrre dei personaggi: personaggi che devono piacere al pubblico, in virtù della voce ma anche della storia, delle emozioni, della fisicità. Al termine del talent, i più graditi dal pubblico vengono quindi integrati di diritto nell'organico delle grandi case discografiche, che confezioneranno definitivamente il personaggio: ne plasmano l'immagine, e infine gli assegnano una dozzina di canzoni scritte e musicate da altri (e giudicate "adatte") da interpretare per il pubblico. Per il vincitore di X-Factor, Raidue, il pacchetto comprende addirittura la partecipazione automatica a Sanremo (che, per par condicio, mostra una particolare apertura anche nei confronti delle star di Amici, talent di Canale5).
In sostanza, quindi. il talent all'italiana non è che una produzione di burattini.
Significativo questo spezzone tratto da X Factor, che vede come protagonista la performer-personaggio Chiara Ranieri. Ci si può trovare tutto: il piegarsi a semplice strumento, l'assenza di personalità creativa, la tematica buonista relativa al sovrappeso e alle relative discriminazioni, un paio di immagini in cui Chiara scimmiotta una Fiordaliso d'annata, un'atmosfera a tratti quasi sanremese.
«quando io salgo sul palco dimentico proprio chi è Chiara [...] tendo a mettermi la canzone addosso, come un vestito, cercando di dare qualcosa alle persone che mi ascoltano»
Il Talent Show, tuttavia, può anche essere altro. L'esempio, a suo modo illuminante, è il talent America's Best Dance Crew prodotto da Mtv America e trasmesso in Italia (doppiato, perchè i sottotitoli affaticano gli occhi e per non correre il rischio di apprendere, en passant, qualche suono dell'inglese americano) dalla nostra Mtv.
America Best Dance Crew è un talent che ha come protagoniste alcune "crew", cioè alcuni gruppi di ballerini, provenienti da tutti gli Stati Uniti. La cultura di riferimento (per quanto nell'ambito di Mtv) è la cultura hip hop delle periferie urbane, ed ogni gruppo di ballerini propone proprie coreografie creative ibridando lo stile hip hop "classico" con un proprio stile peculiare che può derivare dalla formazione dei ballerini (break dancing, cheer leading, tip tap, arti marziali, contorsionismo, salsa, teatro) o dalla provenienza "geografica" (lo stile delle gang portoricane, delle periferie di New York o all'opposto di Los Angeles, delle università afroamericane del sud o delle comunità asiatiche della west coast).
In altre parole, ogni gruppo è invitato per esprimere in libertà il proprio stile ibrido e inedito di fronte ad una platea di milioni di spettatori. Ogni collettivo, o meglio ogni "crew", ha quindi un proprio stile forte ed innovativo, propri elaborati costumi di scena, una propria identità forte, propri equilibri interni e propri "maestri" e coreografi (generalmente i ballerini stessi). E', nel suo insieme, un "performer" adulto: non un adolescente o una "bella voce" da plasmare attraverso la continua ripetizione dei classici, quanto un collettivo artistico di talento con una propria storia artistica ed una propria immagine genuina. Ed è chiamato sul palco (di fronte a una giuria composta da trentenni) anche per esprimere questo suo potenziale creativo anche se talvolta un pò "sporco", grezzo, distante dai canoni.
In altre parole, ogni gruppo è invitato per esprimere in libertà il proprio stile ibrido e inedito di fronte ad una platea di milioni di spettatori. Ogni collettivo, o meglio ogni "crew", ha quindi un proprio stile forte ed innovativo, propri elaborati costumi di scena, una propria identità forte, propri equilibri interni e propri "maestri" e coreografi (generalmente i ballerini stessi). E', nel suo insieme, un "performer" adulto: non un adolescente o una "bella voce" da plasmare attraverso la continua ripetizione dei classici, quanto un collettivo artistico di talento con una propria storia artistica ed una propria immagine genuina. Ed è chiamato sul palco (di fronte a una giuria composta da trentenni) anche per esprimere questo suo potenziale creativo anche se talvolta un pò "sporco", grezzo, distante dai canoni.
In questo modo, il talent da uno spazio reale alla creativià ed al desiderio di espressione di giovani, tra l'altro marginalizzati dalla cultura dominante; non li obbliga a passare attraverso estenuanti ripetizioni dei "classici", ma da libero sfogo alle pulsioni creative e fornisce un palcoscenico dal quale comunicare il proprio stile, nell'ambito di un clima generale di innovazione e ibridazione.
Il talent potrebbe proporsi come un sostegno alla creatività, ad esempio alle subculture che trovano nella danza il proprio spazio attraverso cui esprimere progettualità, peculiarità e sensazioni, senza perdere un singolo spettatore.
Tutto ciò accade però molto lontano da noi. In Italia, dalle università ai talent, per sfondare bisogna essere al contrario una tavolozza vergine che i vecchi baroni possano plasmare.
a me quello che incuriosisce è: ma quelli che ne fuoriescono, come elaboreranno la sconfitta?
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