Il linguaggio si sta impoverendo? Parrebbe proprio di sì, a giudicare da quanto riferiscono gli specialisti ai giornali. Un lessico più povero, l’utilizzo diffuso di forme grammaticalmente errate, la scomparsa di tempi e modi verbali. Ma non solo: l’estinzione dei dialetti, che causerebbe la scomparsa di civiltà e di culture, con la prospettiva di un mondo che, tra pochi decenni, potrebbe parlare solo una o due lingue globali. Ce n’è insomma per tutti: per gli snob, per gli eruditi e i moralisti, ma anche per i gentiluomini di campagna impegnati nella “riscoperta” delle eredità dialettali.
Anche se nessuno si preoccupa davvero, la cosa sembra avere anche una certa presa a livello popolare. E’ di questi giorni, ad esempio, la classica prova, nella casa del Grande Fratello, all’insegna della conoscenza della lingua italiana: un paio di esseri umani filtrati, confusi e ridotti a macchiette, alle prese con termini come “favella”, “petecchia”, “foggia”, “cacofonico”, e con gli inevitabili strafalcioni. Il tutto con comici e soubrette che lanciano non meglio definiti cenni di intesa ai telespettatori (il cui livello di istruzione medio non arriva alla licenza superiore).
In realtà ho spesso l’impressione che, le lamentele generiche per l'impoverimento del linguaggio, siano una grande sciocchezza. O meglio: chissenefrega? Le lingue sono strumenti che come tali cambiano e si dilatano o si contraggono a seconda delle necessità comunicative: perché la scomparsa di doppioni, rami secchi, pedanterie e sfumature di cui oramai si è perso il senso andrebbe visto come un impoverimento sostanziale? Cosa si perde chi non conosce il significato di “petecchia”, “foggia”, “cacofonico”? Ed in fondo il messaggio che resta dal discorso mediatico popolare, che pur si diverte ai danni dell’incolto di turno godendosi l’impressione di una pur leggera superiorità, è proprio questo: si vive benissimo anche conoscendo poche centinaia di parole.
Il messaggio proveniente dai media, apparentmente allineato ai puristi del linguaggio, è infatti paradossale. Da una parte la scarsa conoscenza del linguaggio di qualcuno serve a elevare chi, seduto sul divano, ascolta la risposta e dice: “ah certo, già l’ho sentita! Quindi la sapevo”. Dall’altra, l’impoverimento del linguaggio viene giustificato: “io sono bravo, perché – pensandoci – questa parola già l’avevo sentita, e quindi la so; ma la mia titubanza è giustificata perché la conoscenza di questo vocabolo è solo una raffinatezza, un “di più”, un orpello in realtà di fatto inutile”. Il messaggio che passa è questo: conoscere qualche parola in più dimostra una qualche parziale superiorità, ma a parte questo serve a poco. Denunciando l’ignoranza altrui, questo genere di discorsi quindi non fa che promuovere l’impoverimento generale del discorso. Ma così facendo non si corre il rischio di “gettare il bambino con l’acqua sporca”?
Proviamo a fare un’ipotesi. Tra le proprietà del linguaggio vi è quella di creare gruppi di uomini uniti dalla comune conoscenza di questo codice comunicativo. Questi gruppi difficilmente sono collocati, almeno nella mente di chi vi fa parte, sullo stesso piano: spesso la divisione in gruppi è allo stesso tempo una stratificazione. Ad esempio persone con un certo livello di istruzione condividono una padronanza della lingua maggiore rispetto alla media degli individui meno secolarizzati: questa distinzione non è neutra, nel senso che colloca gli individui che condividono una certa padronanza in un gruppo separato situato un gradino sopra. La conoscenza della lingua, in questo contesto, viene quindi ribadita per un unico motivo: continuare a marcare la distanza.
Possiamo quindi dire che le lamentele contro l’impoverimento del linguaggio sono una forma di resistenza e di snobismo da parte di un gruppo tra l’altro in qualche modo privilegiato (chi ne sa di più) nei confronti di chi ne sa di meno? Che sia quindi soltanto un piedistallo aristocratico, piuttosto che una ricchezza sostanziale? Dire che è grave che vocaboli come “favella”, “petecchia”, “foggia” e “cacofonico” scompaiano, è riducibile ad un voler marcare una superiorità sulla base di una competenza che serve solo a separare, ma che non ha rilevanza nella comunicazione, nella formazione del pensiero ed in definitiva nella vita quotidiana? Resistere contro l’impoverimento del linguaggio è quindi sempre snob e sempre sbagliato?
Ricordo di aver letto da qualche parte uno scrittore lamentarsi della scomparsa di molti termini usati per descrivere la natura ed in particolare gli alberi. Chi, tra i giovani, è in grado di riconoscere più di quindici tipi di albero, di fiori, di roccia? Secondo questo scrittore la scomparsa di termini necessari a descrivere la moltitudine del creato impoverirebbe non solo il discorso ma anche lo sguardo (in realtà il processo è, probabilmente, circolare): per riconoscere le differenze è necessario infatti avere un termine per descrivere le due entità diverse. Se questi termini scompaiono, anche lo sguardo quindi non è più in grado di osservare pruni, meli, peri o baobab, ma soltanto alberi. Magari con un tronco dritto marrone ed una chioma a nuvola (ma le nuvole hanno poi quella forma?) di un verde acceso, come nei disegni di età pre-scolare. L’appiattimento del linguaggio, secondo questo scrittore, appiattiva la vista.
Tutto ciò può sembrare in realtà molto vero e molto bello nell’ottica di uno scrittore, o comunque di una persona impegnata a descrivere nei dettagli mondi complessi. Ma a noi gente comune, cosa ci interessa? Per descrivere un bosco, d’altra parte, è molto più efficiente una fotografia. Oppure limitarsi a dire “c’è un bosco”, che poi ognuno colorerà nella sua mente con gli alberi che più gradisce. Dov’è il problema, dunque?
Tutti i bisogni di comunicazione quotidiani, infatti, possono essere soddisfatti (almeno all’apparenza) utilizzando un numero estremamente ridotto di parole. Forse questo può indicare una minore profondità dello sguardo; ma ciò non può forse essere solo il risultato della necessità di semplificare per non perdersi nella complessità potenzialmente infinita delle cose? Chi conosce poche parole non ha problemi al lavoro, nella vita sociale, nei resoconti quotidiani (una giornata di lavoro, una partita di calcio, una vacanza). Al massimo avrà bisogno di uno o due linguaggi specialistici, anche estremamente complessi (della meccanica e del poker, per esempio), che però anche un analfabeta può imparare con la rapidità di un professore.
C’è però un problema. Se il mondo “esterno” può essere descritto in maniera efficiente con un vocabolario limitato, v’è una cosa, altrettanto fondamentale nella vita degli esseri umani, che invece è così complessa ed oscura da avere bisogno di un numero infinito di termini, di costruzioni, di sfumature. Questa “cosa” è la psiche, l’emozione, il sentimento, il desiderio astratto. Il “mondo interno”.
Riflettendo o comunicando le emozioni, le paure, le sfumature della mente, abbiamo infatti bisogno di molte parole: parole sempre più vaghe, più diluite, più personali, e tuttavia ancora insufficienti nel descrivere quello che sentiamo di provare. E questo vale sia quando “parliamo” con noi stessi, cioè nell’attività puramente introspettiva, sia quando proviamo a comunicare con le poche persone complici ciò che proviamo, magari anche nei loro stessi confronti.
Questa competenza è fondamentale. Quante incomprensioni e quante insoddisfazioni sono provocate dall’incapacità soprattutto di comprendere, ed in secondo luogo di esprimere ciò che ci passa per la testa? E quanto ciò è dovuto anche all'incapacità del linguaggio di confrontarsi con questo universo irriducibilmente complesso? L’impoverimento del linguaggio non rischia di renderci meno capaci di gestire noi stessi e le nostre relazioni? Di vivere appieno l’ambito delle sensazioni? Non per nulla la poesia, ambito che utilizza un linguaggio complesso per eccellenza, ha a che fare quasi nella sua totalità con le sensazioni. Sensazioni che però non sono vissute solo dai poeti (la cui principale differenza con gli altri è piuttosto quella di non avere in odio la retorica). Queste sensazioni sono vissute anche da chi, anche per povertà espressiva, non è in grado di comprenderle e, perché no, di comunicarle. E in questo modo si mutila.
Lo stesso vale per i pensieri astratti: desideri, progetti, utopie individuali e collettive. Nel Grande Fratello di Orwell il regime ostacolava il dissenso cancellando le parole scomode, o trasformandone il significato. Tante parole sono comunque insufficienti per pensare e per creare mondi nuovi e migliori; ma senza di esse sicuramente non v’è speranza alcuna.
Le lamentele di fronte all’impoverimento del linguaggio sono, spesso, il risultato di un mix di snobismo e di attaccamento ai dogmi appresi a scuola. Chi si limita a questo non solo dimostra di non aver capito la natura dinamica, strumentale e “volgare” del linguaggio: soprattutto, dimostra di non aver compreso perché e quando la difesa del linguaggio è necessaria per l’uomo, e quindi di non saper difendere la lingua affatto. Le lamentazioni di questi individui non salveranno mai una sola parola.
Per le descrizioni pratiche della realtà, e per le incombenze quotidiane, bastano poche parole come insegnano d’altro canto i giornali, che indignano i pedanti ma che svolgono in maniera perfetta (linguisticamente parlando) la loro funzione. Non c’è quindi da stracciarsi le vesti se parole ed espressioni che ormai non servono a nulla vanno scomparendo.
Il mondo in cui viviamo, però, è ben più ampio: esso comprende anche la sensazione, la relazione, il sogno, l'umorismo e il pensiero complesso, cioè tutto quel “mondo interno”. E questo ambito è estremamente complesso, sfumato, ed allo stesso tempo così importante e vitale da meritare ogni sfumatura. In questo ambito, quindi, il linguaggio va difeso nella sua funzione paradossalmente principale: aiutare a comprendere, a produrre, a gestire e a trasmettere sensazioni, relazioni, sogni, ragionamenti complessi.
Quando ci rendiamo conto di non conoscere o di non utilizzare una parola, facciamoci una domanda: “Questo termine mi potrebbe aiutare a descrivere meglio una sensazione, una relazione, un sogno?”. Se la risposta è no, evitiamo l’accanimento terapeutico. Se la risposta è sì, proviamo a salvarlo perchè, salvando esso, salveremo in fondo anche un pezzo del nostro e dell'altrui "mondo interno".
Buongiorno, sono uno studente di liceo. Sto svolgendo una tesina sulla storia della lingua italiana con riflessioni circa l'impoverimento e le conseguenze sul piano politico, filosofico e letterario. La ringrazio per il saggio, che ho trovato di grande interesse, e le chiedo se gentilmente ha modo di ritrovare il nome del non meglio specificato scrittore che sostiene che l'appiattimento del linguaggio appiattisca di riflesso lo sguardo. Sa, in un documento da esame quale la tesina per sostenere delle teorie è tristemente d'obbligo - de facto - citare quelle espresse da autori 'noti'..
RispondiEliminaCiao, leggo questa tua opinione con molto ritardo ma proprio oggi stavo rileggendo alcuni studi sul linguaggio per farne un articolo. Il mio filo rosse è proprio l'impoverimento del linguaggio e condivido diverse tue riflessioni.Il linguaggio - diceva Heidegger - è la casa dell'essere e per farla breve io credo che l'impoverimento del linguaggio ( il minor uso di vocaboli specifici, la perdita dell'uso di artifici retorici se non del tutto involontari) sia necessariamente un impoverimento dell'Essere. Se il linguaggio regredisce e non si evolve l'essere si desertifica poiché solo attraverso il linguaggio riusciamo ad interrogare noi stessi e gli altri enti. Se non siamo in grado di trovare parole per descrivere emozioni, descrivere uno stato di cose, una percezione non siamo più in grado di avere una profonda conoscenza dell'Essere. Regrediamo anche noi al preverbale. La perdita di linguaggio premia le mostre fotografiche e penalizza la buona letteratura. Perchè? perché l'immagine parla direttamente all'emozione, così come la musica, ma senza parole non siamo in grado di ritrasmettere e rielaborare quell'emozione. L'impoverimento del linguaggio svela una sempre crescente superficialità del vivere. Questo io credo. dal numero di vocaboli, dalla complessità di una lingua si può capire il grado di approfondimento dell'essere della cultura che ha generato quella lingua. Prendiamo l'inglese e il cinese mandarino. L'inglese ha pochi caratteri (26) ma inventa nuovi vocaboli continuamente e il dizionario Oxford ne conta circa 600mila. Al contratio il cinese conta circa 90000 caratteri che esprimono di per sé concetti e si possono combinare tra loro. L'alfabetizzazione cinese prevede l'uso di 3 o 3 mila caratteri. per imparare a leggere l'inglese che ha più vocaboli bastano però le 26 lettere. Punti di vista differenti dunque di due differenti culture. Ecco perché il linguaggio è la casa dell'essere e ne è manifestazione. Per quello tempo un impoverimento della lingua.
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